Fini o il “cavaliere inesistente”

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Fini o il “cavaliere inesistente”

23 Novembre 2007

Anni fa, un feroce avversario di partito di Gianfranco Fini,
Tommaso Staiti di Cuddia, lo definì: “Il cavaliere inesistente”, una stupenda
corazza tirata a lucido… ma dentro niente. Quell’immagine ritorna alla mente
oggi perché, ingenerosa com’è,  spiega l’inesplicabile:
la serie incredibile di gaffes, di dilettantismi, di vaniloqui con cui il
presidente di An ha reagito allo spariglio di Silvio Berlusconi.

Se si torna al 1993,
la storia del “cavaliere nero” e del “cavaliere inesistente” acquista uno spessore
che ben spiega l’oggi. La discesa in campo di Berlusconi, lo si ricordi sempre,
avvenne infatti proprio nel momento in cui dichiarò che a Roma, lui avrebbe
votato per Fini, contro Rutelli. Repubblica lo battezzò “il cavaliere nero” e
da quel momento Fini, godette di un vantaggio unico per un politico: un
Berlusconi sempre più in forze, per 14 anni gli ha aperto la strada, lo ha
sdoganato, lo ha proiettato al centro della vita politica come d’incanto.
Accanto a sé, all’epoca, Fini aveva l’ottimo Pinuccio Tatarella, che aveva
fallito l’aggancio del Msi a Bettino Craxi pochi anni prima (sconfitto proprio
da Fini, come da Rauti) e che nel 1993 riqualificò quello schema nella
prospettiva di An. Trainato, letteralmente, dai “cavaliere nero” e dal
“cavaliere barese” (Pinuccio era una sorta di “grande di Spagna” con la sua
straordinaria intelligenza plebea), Fini entrò da protagonista nell’agone
politico e arrivò sino alla vice presidenza del consiglio.

Sul medio-lungo
periodo, Fini non si è mai mosso dallo schema del 1993: An trainata da
Berlusconi, rottura con il passato fascista, e… basta. Il presidente di An non
ha mai elaborato nuovi schemi, nuovi processi, anzi, ha lasciato invecchiare
quelli di Tatarella. An, infatti, è rapidamente abortita: se si guarda al guppo
dirigente di oggi l’immagine è sconfortante, è costituito solo e unicamente da
dirigenti del Msi e – più ancora – dai colleghi di Fini al Secolo d’Italia di via
della Scrofa. I vari Publio Fiori e Domenico Fisichella se ne sono andati, non
c’è stata nessuna new entry, tranne Daniela Santanché e a rappresentare – con
evidente e sofferto disagio – lo “spirito di An” è rimasto il solo Alfredo
Mantovano. Il partito di Fini, insomma, si è dimostrato straordinariamente
impermeabile alla società civile, arroccato su una strana identità tutta
ruotata attorno a un leader, che per di più ha dato ampie dimostrazioni di non
sapere “fare squadra”: i casi della Mussolini e di Storace hanno
dell’incredibile, nella loro dinamica interna ai rapporti umani e di colleggialità
di un  partito costretto a scoprire di
avere cambiato linea sulla cittadinanza agli extracomunitari, come sulla
fecondazione artificiale dai giornali.

Una sola cosa ha
tentato di fare, una sola strategia Fini ha tentato di portare in porto:
insidiare la leadership di Berlusconi. Pura tattica di Palazzo, puro gioco di
rimessa che si è rilevato fallimentare quando è uscito allo scoperto con
quell’esperienza allucinante che è stato “l’asinello” con Segni e Taradash,
dall’esito tragicomico.

Questa storia più che
decennale, se ripercorsa, spiega la rabbia di Fini di queste ore: se gli
tolgono il punto fermo di un Berlusconi apripista (da pugnalare alle spalle),
il presidente di An non ha più strategia, non sa dove andare, cosa fare (Stelio
Solinas, con cattiveria, scrive che ha paura di tornare nelle fogne e ha
perfettamente ragione, politicamente scorretto come deliziosamente è).

Si paragonino gli
atteggiamenti di Fini – inclusa l’incredibile sfuriata a voce alta con Biondi in
Transatlantico – con quelli di Casini e si misura la diferente caratura. Casini non si è
scomposto, ha preso atto della fine da parte di Berlusconi di quel vincolo di
coalizione che lui aveva già abbandonato, ha criticato il “populismo” del
“dottore” e ha ripreso a gran lena a tessere la sua prospettiva di una
aggregazione di centro con Montezemolo, Mastella e forse anche Dini (una sorta
di “centro bancario”, con sponde in Caltagirone-Geronzi-Della Valle, che ha un
suo concreto fascino di potere).

Casini, insomma ha
fatto politica. Fini, invece, ha
dimostrato di essere un eccellente giocatore di rimessa (come sempre, come è
nato, da Almirante in poi), ma un pessimo giocatore in proprio. Soprattutto ha
dimostrato una leggerezza imperdonabile per chi – con tanta evidenza – aspira
alla premiership: non ha una strategia autonoma. Peggio ancora: non sa
elaborarla.  Un problemaccio per
la destra.