Fini vuole la crisi di governo? Solo un po’

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Fini vuole la crisi di governo? Solo un po’

05 Agosto 2010

Revival. E’ tempo di revival. Forse è la calura agostana, forse il desiderio di sole e di mare, ma certo è che la politica italiana sembra vittima di un’irresistibile voglia di revival. La vicenda della mozione “di sfiducia” al sottosegretario Caliendo, oltre ad essere farsesca nei suoi contenuti di merito, rivela una preoccupante tendenza della politica italiana a riesumare formule astruse e giochini di palazzo che abbiamo conosciuto nei decenni passati e che speravamo definitivamente sepolti.

E così dopo gli immancabili appelli a governi tecnici, istituzionali, di responsabilità nazionale, del Presidente eccetera, eccetera, abbiamo riassaporato il piacere della più insolita categoria politica inventata dalla immaginifica fantasia italica: il governo della non sfiducia. Ovvero di un governo che si basa non sulla fiducia della maggioranza parlamentare bensì sulla convergenza di una minoranza parlamentare e di un’altra minoranza che non ha il coraggio di appoggiare formalmente il Governo ma non ha nemmeno il coraggio di fare una coerente opposizione.

E così, astenendosi rende la minoranza che sostiene il governo comunque più consistente dell’opposizione vera e propria. Una soluzione strampalata, sperimentata a fine anni settanta con il governo Andreotti supportato dall’astensione del PCI, che scadeva anche nel comico quando (per via del regolamento del Senato che equipara le astensioni ai voti contrari) costringeva i poveri senatori comunisti ad uscire fisicamente dall’aula ad ogni votazione! Sono note le ragioni che hanno condotto alla fuoriuscita dal gruppo del Pdl di un manipolo di deputati finiani. Sono molte le ragioni ufficiali e anche quelle sostanziali. Ma quel che colpisce è il fatto che i finiani hanno scelto come occasione per inaugurare il nuovo (vecchio) corso della politica italiana il pretesto sbagliato. Perché al di là di come si valuti la “vicenda Caliendo”, non c’è dubbio che si tratta di un caso nel quale non sembra esserci alcuno spazio per una posizione terza forzista.

Nel caso di specie o si votava a favore della mozione che chiedeva la rinuncia alle deleghe del sottosegretario (e che quindi lo sfiduciava) o si votava contro la medesima confermando piena fiducia al sottosegretario e quindi al Governo. Se si riteneva fondata l’accusa, valutando la partecipazione a qualche convegno scientifico, o l’accettazione di un invito ad una cena alla quale partecipano anche alcuni personaggi, per fatti reali o per millanteria, poco raccomandabili, incompatibili con l’esercizio delle funzioni di governo di un sottosegretario, allora si aveva il dovere politico (e morale) di chiederne le dimissioni.

Se viceversa si riteneva che quella su Caliendo sia solo l’ennesima campagna del giustizialismo dipietrista, esaltato dal circuito mediatico giudiziario che da un paio di decenni infesta la vita politica italiana, allora l’unica cosa da fare era respingere la richiesta di dimissioni. Tertium non datur. Come ha plasticamente ricordato ieri il ministro Alfano: “Sui principi non ci si astiene”. Il fatto è che il voto di ieri, come del resto l’intero tormentone finiano di questa legislatura si caratterizza per l’elevatissimo tasso di strumentalità delle posizioni.

Ciò che appare sempre più evidente è che l’intera strategia del Presidente della Camera è stata costruita solo su calcoli, non sappiamo se corretti, ma molto precisi di mera tattica politica. La storia personale di Fini, la modesta compagnia di giro che lo circonda, l’incoerente miscela di dieptrismo pallido, modernismo democraticistico, futurismo laicista e meridionalismo clientelare, sono del tutto inadeguate per costruire una prospettiva politica che abbia respiro strategico. L’obiettivo è piuttosto quello di mettere in crisi gli attuali equilibri politici nella convinzione di poter giocare un ruolo decisivo quando si tratterà di definirne di nuovi.

Ma per far ciò, Fini ha un disperato bisogno di tempo. Una rapida accelerazione della crisi porterebbe inevitabilmente ad elezioni anticipate le quali sancirebbero con ogni probabilità una sua sconfitta. E perciò Fini è intenzionato ad impedire al Governo di governare ma al tempo stesso è costretto a tenerlo in vita almeno per un pò.

Ma questa posizione anche se ammantata da altisonanti proclami sui doveri di responsabilità della politica (sarebbero folli elezioni anticipate in una fase di crisi economica, i mercati ci punirebbero, la gente non capirebbe) è ben vedere la più irresponsabile di tutte. Una lunga fase di incertezza di governo, di fibrillazioni politiche, di agguati parlamentari, oltre che dannosa per il buon funzionamento della nostra democrazia sarebbe anche dannatamente costosa sul piano economico e sociale. Fini vuole la crisi, ma non la vuole del tutto.

E tutto ciò mi ricorda un episodio della mia lontana giovinezza quando un’amica, ad un corteggiatore francese che le chiese “Tu veux faire l’amour?”, rispose”Un peu!”