Fondi pensione, l’impiego “socialmente responsabile” rischia di essere un flop

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Fondi pensione, l’impiego “socialmente responsabile” rischia di essere un flop

17 Agosto 2007

Per  il ministro del Lavoro, Cesare Damiano, l’adesione dei lavoratori ai fondi pensione è l’elemento che ha allietato la sua partenza per le vacanze, mentre alla sua sinistra (da  Francesco Caruso al suo collega Paolo Ferrero) buona parte della maggioranza sparava a zero contro il Protocollo del 23 luglio di cui si Damiano considera uno dei maggiori architetti. Sono 727.000 i dipendenti che hanno deciso nei primi sei mesi del 2007 di conferire il proprio TFR alla previdenza complementare, «…a cui si dovranno aggiungere i conferimenti taciti, secondo il meccanismo del silenzio assenso», cioè le iscrizioni automatiche ai fondi pensione di categoria di coloro che non hanno espresso alcuna scelta entro il 30 giugno. Su una platea di lavoratori dipendenti pari a 12,2 milioni, il silenzio assenso dovrebbe riguardare, secondo il ministro, circa un 10-15% dei lavoratori e quindi una cifra variabile tra 1,2 milioni e 1,8 milioni. Considerando anche i lavoratori già iscritti al 31 dicembre 2006, si arriva a un tasso di iscrizione ai fondi di circa il 34-35%.

All’inizio dell’autunno, messa in bisaccia questa raccolta, numerosi CdA dei fondi dovranno decidere in che misura gli investimenti dovranno essere non solamente diversificati (per contenere i rischi) e redditizi (per assicurare trattamenti dignitosi agli iscritti, una volta a riposo) ma anche “etici”, o , per utilizzare il lessico della professione, “socialmente responsabili”. E’ utile sottolineare che numerosi gestori dei fondi hanno finalmente deciso che utilizzare le risorse per acquistare titoli di Stato,  un’operazione che raddoppia soltanto i costi di transazione (e le pertinenti commissioni) e, quindi, non giova a nessuno. Non intendono, però, neanche investire gli accantonamenti in azioni od obbligazioni di aziende peccaminose (che non seguano le regole internazionali del lavoro o peggio ancora producano beni e servizi disdicevoli come il gioco, bingo compreso, i preservativi e simili).

Il tema ha diverse connotazioni. Da un lato, in che misura, è auspicabile una gestione dinamica – come rivela una recente polemica sul collocamento della liquidità della Gates Foundation (non è un fondo pensione ma una fondazione dedicata esclusivamente alla virtù) – che comporta inevitabilmente lo scivolare nella partecipazione azionaria di imprese addirittura “con finalità predatorie”. Da un altro, se (e di quanto) degli investimenti socialmente responsabili beneficiano le comunità dove vengono effettuati, penalizzando (in termini di riduzione dei rendimenti) gli investitori. Uno dei più antichi (i fondi Domini) – che opera da circa 20 anni tramite una varietà di fondi etici ed è uno dei più vasti operatori del settore (2 miliardi di dollari di attività) –  mostra nel suo elegante sito web rendimenti di tutto rispetto per ciascuna delle sue gestioni. Analogamente il Rabbinical Pension Board indirizza fondi di comunità ebree americane verso investimenti in banche popolari (a beneficio di comunità a basso reddito) e sostiene di avere ottenuto, negli ultimi dieci anni, rendimenti di tutto rispetto.

Meno incoraggiante di queste analisi (o impressioni supportate da un numero limitato di supporto empirico) uno studio delle Università di Tilburg e dell’Università di Sheffield che uscirà come ECGI Finance Working Paper n. 168/2007 in settembre. L’aspetto per noi più interessante è che l’analisi empirica riguarda non solo i fondi Usa e britannici ma anche quelli dell’Europa continentale e dell’Asia (due aree dove proprio in parallelo con la crescita dei fondi pensioni c’è stato un rapido aumento di destinazioni di attività finanziarie in rami “socialmente responsabili”). In Europa e nel Bacino del Pacifico, la virtù ha un costo quantizzabile in rendimenti inferiori del 5% (non di cinque punti percentuali) quelli dei benchmark nazionali o regionali di riferimento. L’analisi suggerisce anche che tale costo dipende non tanto dalla virtuosità morale per sé quanto dalla modesta capacità dei gestori (nei cui organi di indirizzo siedono spesso sindacalisti, esponenti di denominazioni religiose, notabili del mondo della cultura, ed altre anime pie ben intenzionate ma poco esperte nei labirinti della finanza) di selezionare con cura gli investimenti “socialmente responsabili”. Una delle ragioni è la loro scarsa dimestichezza con applicazioni di analisi finanziaria quali i risk adjusted returns e i loading factors. Ancora una volta: il diavolo si annida nei dettagli non in massimi principi come quello secondo il quale la virtù è bella e va incoraggiata. Proprio per contenere questi problemi, le due università stanno pubblicando un manuale operativo : “Socially Responsible Investments: Methodology, Risk Exposure and Performance” ECGI – Finance Working Paper No. 175/2007. Se ne possono chiedere informazioni al Prof. Jenke ter Horst  scrivendo a J.R.terHorst@uvt.nl