
Forza e diritto da Machiavelli al MES

15 Maggio 2020
In un arguto e garbato editoriale di presentazione dissenziente di un mio articolo, su questo giornale, sulla necessità per le disastrate finanze italiane di approvvigionarsi agli strumenti, sia pure transeunti ed imperfetti, messi a disposizione dell’Europa il Senatore Quagliariello ribaltava, abilmente, il concetto di realtà effettuale del Machiavelli nel senso di ritenere che gli insegnamenti del Cancelliere fiorentino dovessero consigliere di evitare il ricorso a quello strumento per non soccombere alla forza di altri.
Stante l’importanza dell’argomento torno sul concetto. Le argomentazioni giuridiche ed economiche di contrarietà all’utilizzo degli strumenti finanziari (non solidali nel debito) messi a disposizione dall’Europa risultano a ben guardare andare dietro più alla immaginazione della “cosa” che alla sua “verità effettuale”.
Verità effettuale che dovrebbe indurre a riconoscere nella drammatica necessità di denaro da parte dell’Italia attraverso strumenti finanziari non afflittivi (le cosiddette condizionalità) l’irrompere della concretezza sociale, con la sua drammaticità di gestione dell’attualità, nel perimetro non contingente della fattispecie normativa. Stiamo parlando, insomma, del rapporto tra norma ed eccezione.
Già Carl Schmitt ebbe ad affermarlo nell’incipit al suo celebre libro Teologia della politica: “sovrano è chi decide sullo stato di eccezione…lo stato di eccezione ha per la giurisprudenza un significato analogo al miracolo nella teologia” e trova un insospettabile alleato in Pascal che nei suoi Pensieri afferma: “…gli stati perirebbero se non si facessero piegare spesso le leggi alla necessità”.
Questa endiadi norma/eccezione, secondo la necessità – ovvero come impongono le circostanze -, trova in Machiavelli (Principe della realtà effettuale) la sua cifra anche letteraria. Ecco una breve antologia delle sue citazioni sul tema:
– capitolo XVI…sarebbe bene essere tenuto liberale; nondimeno la liberalità usata in modo che tu sia tenuto, ti offende;
-capitolo XVII…ciascuno Principe debbe desiderare di essere tenuto piatoso…nondimanco debbe avvertire di non usare male questa pietà;
– capitolo XVIII…quanto sia laudabile in uno Principe mantenere la Fede…ciascuno lo intende; nondimanco si vede per esperienza dei nostri tempi quelli Principi avere fatto grandi cose che della fede hanno tenuto poco conto.
I brani citati – e prendo a prestito le idee Ginzburg -, mostrano una predilezione del Machiavelli per l’avverbio “nondimanco”: non vezzo stilistico quanto riflessione politica sull’importanza dell’eccezione rispetto alla regola della forza nella politica. L’eccezione, insomma, è proposta dal Cancelliere quale elemento mediativo rispetto alla forza e la parola “nondimanco” che, come si è visto, ritorna ripetutamente nel Principe, risulta “convalidativa” della tensione tra norma ed eccezione: il “sapere ben usare la bestia e l’uomo” e cioè la forza e le leggi: forza e legge che sono, al tempo stesso, contigue ed eterogenee così come l’uomo e la bestia nel corpo del mitico Centauro.
La capacità di utilizzare giuridicamente l’eccezione per neutralizzare la forza diventa, dunque, la cifra distintiva dell’abilità politica: “tutti è profeti armati vinsono e li disarmati ruminarono”. Laddove è evidente che le armi della politica son nelle idee, nel metodo, nella capacità di gestire strumenti transeunti ed imperfetti, specie economici per finalità politicamente e socialmente caratterizzate da un alto contenuto valoriale che consentano di ribaltare l’osservazione di Pascal per cui nella politica “se non si riesce a rende forte il giusto si rende giusto il forte”.
Forza è dunque parola machiavelliana, ripresa e rielaborata in senso diverso anche da Galileo Galilei. Di seguito un passo di una sua lettera a Cristina Di Lorena – “io vorrei pregare questi prudentissimi e sapientissimi padri che volessero con ogni diligenza considerare la differenza che è tra le dottrine opinabili e le dimostrative…come non è in potestà de’ professori delle scienze dimostrative il mutar l’opinione a voglia loro…e che non con li stessa facilità si possono mutare le conclusioni dimostrate circa le cose del cielo che le opinioni circa quello che è lecito o no in un contratto”. In buona sostanza la giustizia è “opinabile”, la forza non lo è. E senza la gestione delle eccezioni nelle leggi e nei commerci finisce per prevalere la forza travestita da giustizia.
Dopo esserci abbeverati ai classici possiamo venire all’utilizzo del MES perché esso e, soprattutto, le sue implicazioni riportano d’attualità il rapporto di forza tra gli Stati membri dell’Unione Europea e la cedevolezza dell’aspetto “mediativo” del diritto e degli accordi, soprattutto di solidarietà economica, tra Stati.
Ora, se da un lato l’utilizzo in concreto del MES da parte dello Stato italiano – sia pure mascherato da tutte le argomentazioni che la propaganda politica è in grado di esternare -, dovesse risultare inevitabile, a maggior ragione bisognerebbe sviluppare una riflessione sul metodo. Riflessione resa necessaria in ambiti intellettuali, purtroppo, dall’ignoranza della politica la quale, alla ricerca disperata di argomentazioni di opposta faziosità ideologica, maneggia con scarsa dimestichezza concetti ed istituti che, invece, se rettamente intesi, aiuterebbero sia il ceto politico a delle decisioni razionali e non emotive sia l’intero paese ad un atteggiamento di maggiore consapevolezza. “Nomina est sostantia rerum”.
Nell’attualità politica sta conoscendo una nuova giovinezza la triade concettuale di “ordinamento – stato – sovranità” variamente declinata: o in senso pauperistico per minacciarne l’integrità da parte di sovrastrutture tecnocratiche espressione della finanza internazionale anonima o in senso emotivo per palesarne la intrinseca aggressività come nel caso della pronuncia della corte costituzionale tedesca in ordine al ruolo ed alle funzioni della Banca Centrale Europea.
In realtà già Kelsen, agli inizi del novecento, aveva rivoluzionato la teoria del diritto operando uno svuotamento della triade concettuale “ordinamento – stato – sovranità”. Aveva – e prendo a prestito le parole di Catania -, trasposto questi costrutti, densi di sostanzialità e spessore volontaristico, nel perimetro della costruzione artificialistica e strettamente conoscitiva dell’ordinamento, pensato quest’ultimo in modo da capire e contenere (nel doppio senso di tenere dentro e di trattenere) le prassi e le decisioni del suo travagliato tempo.
Il diritto si consegna così a delle traiettorie di potere (effettuale nel senso di Machiavelli) non più (e non solo) come un sistema unitario sottoposto a principi ma nella sua nuova duttilità, che non può che riflettere le lotte tra visioni del mondo diverse, interessi, scopi e piani di vita differenti e conflittuali.
Le disposizioni, le norme, i regolamenti, le decisioni emergono dunque dai rapporti di forza e non li sintetizzano; raramente li mediano: ciascuno con tutto il suo carico di contingenza e casualità cerca di produrre diritto e lo consuma nel tentativo di far valere la propria scelta. Di tal chè il metodo (o la metodologia positivista) si risolve in un’indagine rispettosa della concretezza delle prassi giuridiche così come sono attuate, poste, interpretate; senza presupporre o sovrapporre entità o presumere significati ultimativi. Ovvero, utilizzando i concetti e le parole come grimaldelli per capire quanto accade, rispettandone la duttilità, la parziale incoerenza, l’efficacia al di là del rigore formale. Si tratta in buona sostanza, seguendo la riflessione politica di Machiavelli, di indirizzare la riflessione politica tanto sull’eccezione quanto sulla regola. E cioè, come è stato detto, “di produrre una casistica in termini di necessità”.
Il tentativo di sintesi della tensione tra gli opposti poli della regola e dell’eccezione appartiene di pieno diritto alla tradizione giuridica europea. Già i nostri giuristi formati nella Scolastica analizzavano il rapporto partendo da passi della Bibbia. Di Mosè, per esempio, si disse che aveva permesso il ripudio della prima moglie per passare a nuove nozze sulla base del pricnipio “permisit fieri mala ne fierent pejora”. Nelle sue quaestiones mercuriales Giovanni D’Andrea illustrò lo stesso principio ricordando la tolleranza divina nei confronti sia delle cerimonie ebraiche sia dell’usura.
E con ciò siamo tornati al Machiavelli del Principe e dei Discorsi: “ancora che lo usare la fraude in ogni azione sia detestabile nondimanco nel maneggiare la guerra è cosa laudabile e gloriosa”. Come al solito Machiavelli parte dalla regola universale per giungere alle eccezioni locali: eccezione, si badi bene, non semplicemente ammissibile bensì “laudabile e gloriosa”.
In questa prospettiva il cosiddetto MES risulta una fattispecie “paradigmatica” in cui la nozione definitoria (la norma) diviene uno strumento conoscitivo che, come ogni strumento conoscitivo ha carattere ipotetico e consente lo svolgersi, dialetticamente fattuale, della regola e della eccezione. Eccezione che, a sua volta, risulta strutturata sulla casistica contingente in termini di necessità. E’ una sorta di schema organizzatorio che mette in grado di dare un senso al mondo delle decisioni “necessitate”. Decisioni che – qualunque sia il contenuto della scelta – implicano sempre, in senso lato, un atto politico ed ideologico: il riconoscimento della dimensione “tragica” della politica “costretta” tra necessità di una “visione” ed ancora più tremenda “necessità” del contingente del qui, ora e subito (bis dat qui cito dat).