Francesco Renda, storia di un ragazzo di paese siciliano poi leader del Pci
09 Dicembre 2007
Quasi seicento pagine, un’esistenza lunga, produttiva,
varia. La racconta, con piglio da protagonista e limitatamente alla parte
pubblica, un grande vecchio della sinistra siciliana: Francesco Renda.
Da ragazzo di paese a leader di punta del sindacato e del
piccì, a più riprese deputato regionale ma anche parlamentare nazionale, poi
storico, cattedratico, autore di testi fondamentali sulla storia soprattutto
otto-novecentesca dell’isola. Nel volume lo scrittore si porta per mano. Si
dettaglia. Dalla formazione cattolica in
un borgo dell’agrigentino alle lotte contadine dell’immediato Dopoguerra,
quando essere a sinistra significava spesso mettersi anche fisicamente a
rischio.
Un pericolo che come dirigente sindacale evita per un soffio
nel 1947, in occasione della strage di Portella della Ginestra. Renda è
l’oratore delegato dal partito, ma un contrattempo alla motocicletta che
lo trasporta lo salva in extremis – dieci al massimo quindici minuti di ritardo –
dall’essere coinvolto nella sparatoria ingaggiata contro gli inermi lavoratori,
in festa per il primo maggio, degli uomini di Salvatore Giuliano.
“Giunti sul posto”, esclama Renda, “invece della festa,
trovammo l’inferno”.
Portella a parte, l’intero primo Dopoguerra è perlopiù muro
contro muro. La diccì troppo contigua alle destre, agrari eccetera, eppoi in
soprassoldo le intimidazioni di campieri e picciotti.
Il nostro è tuttavia un figura dialogante. Segue con
curiosità i travagli dello schieramento avversario, le lotte intestine fra big
del Biancofiore nella fase iniziale dell’autonomia regionale. Ma è anche versato
alla rottura. Così durante il “milazzismo”, la breve stagione in cui il
fortissimo scudocrociato siciliano è estromesso dal governo locale da una
variopinta coalizione che va dal Movimento sociale ai comunisti.
Nel giudicarla, a distanza di tanto tempo, Renda è piuttosto
cauto. Al dunque, si limita a notare che scarse erano le possibilità che “il
Governo Milazzo assumesse un programma politico avanzato”.
Registra tuttavia che, di primo acchito, quel mettere fuori
gioco la vecchia maggioranza diceva di “una sconfitta democristiana” e di una
“grande vittoria comunista”. Errore, secondo l’autore, semmai cercare di
mantenere in vita, dopo le elezione regionali del 1959, l’operazione non avendo
abbastanza voti parlamentari per farlo. Risultato? “Maggioranze avventate”,
“equivoco significato politico”.
Renda racconta seppure con pizzico di cautela di troppo,
alla maniera del “vecchio piccì” di dissensi, antipatie e contrasti nella vita
interna comunista. Poco simpatizza, lo fa però più fra le righe che a chiare
lettere, verso il suo coetaneo ed emergente Emanuele Macaluso. Con il futuro
leader migliorista rompe nel 1960. L’occasione è la sostituzione del mitico
Girolamo Li Causi alla segreteria regionale. Macaluso è il vincente, Renda, per
il momento, si mette da parte.
Ma è un fra parentesi passeggero. Il dirigente agrigentino
continua, infatti, a essere una prima fila del comunismo isolano, in veste di
dirigente locale e parlamentare, anche se, soprattutto a partire dai primi anni
Sessanta, l’attività di studioso di storia fa sempre più aggio su quella di
politico a tempo pieno.
Ricercatore professionale e autorevole docente dell’Ateneo
palermitano, il nostro guarda con occhio comunque politico la materia dei suoi
studi, scommettendo su un riformismo isolano dai tratti spesso contradditori e
velleitari.
Francesco Renda, Autobiografia
politica, Sellerio, pagine 568, euro 24,00
Beppe Benvenuto