Fu proprio Montanelli a scoprire il degrado della giustizia italiana
31 Gennaio 2010
Quando in Italia si parla di giustizia sembra sempre che tutto sia stato detto e nulla possa essere fatto. L’abisso delle ipotesi, dai progetti realistici alle pure elucubrazioni, è stato sondato da cima a fondo; ma al momento di passare alla pratica anche la più piccola riforma si rivela un rischio drammatico, un attentato all’equilibrio così perfetto e delicato del nostro assetto istituzionale. Troppo strano per non pensare che l’immobilismo sia figlio, piuttosto che di soluzioni inadeguate, di calcoli sull’opportunità “politica” del cambiamento e sulla sua convenienza “sociale”.
L’ultimo grande dibattito (o la prima seria discussione) sulla giustizia italiana risale alla seconda metà degli anni ’90, sulla scia del ciclone Mani Pulite, in un clima che ricorda per molti versi quello odierno. Dopo l’abbuffata giustizialista procurata da Di Pietro e compagnia, l’opinione pubblica italiana era fortemente polarizzata: da un lato si accusava la magistratura di voler far politica, decidere i governi e fare le leggi secondo convenienza di casta; dall’altro si rimproverava alla politica l’insano impulso ad intralciare il corso della giustizia e attentare alla sacra autonomia del potere giudiziario. Il Palazzo, si diceva, tentava di riprendersi il primato nella guida del Paese: con la stessa violenza usata da chi gliel’aveva sottratto. L’esito più concreto di tanta bagarre fu la famosa (o famigerata) Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema, che discusse di riforma della giustizia, separazione delle carriere, aumento del controllo politico sul Csm, e puntualmente non decise nulla. Con buona pace dei riformatori più ferventi e un soddisfatto, profondo sospiro di sollievo del sempre vasto partito del “tira a campare”.
A quel dibattito Indro Montanelli partecipò in prima persona, con i consueti accenti polemici, assumendo una posizione inedita (ove mai fosse possibile in tema di giustizia), fornendo un contributo di buon senso che per un paradosso tutto italiano fu bollato, al solito, come “originale”. Vincendo la sua tradizionale disaffezione per la cronaca giudiziaria, Montanelli aveva sostenuto con fermezza, dalle pagine del Giornale e poi della Voce, l’azione del pool di Milano, salvo constatarne amaramente il precoce declino a esercizio di protagonismo fuori controllo. Il disappunto del maestro sfociò in uno sfogo senza mezzi termini, espresso a più riprese nei dialoghi coi lettori del Corriere della Sera.
Una diagnosi impietosa: la giustizia italiana è malata; di più, allo sbando. E le ragioni di questa malattia risiedono innanzi tutto in un nugolo coriaceo di vizi atavici, una serie di odiosi “peccati originali”.
Il bizantinismo della nostra legislazione, tanto per cominciare. Più serio che faceto, Montanelli raccontava di quando il suo mentore Ugo Ojetti gli propose un lungo ritiro in un casolare della campagna fiorentina per riscrivere in lingua italiana i codici italiani. Un’impresa che gli avrebbe fruttato gloria eterna, si rammaricava pensando al suo rifiuto, un servizio senza pari reso alla patria. E invece… Invece i codici italiani restano un autentico Mistero Eleusino, un groviglio di norme spesso incomprensibili, “delizia del genio cavillesco”, suscettibili di ogni interpretazione e del suo contrario, affidate a una lingua che dice (male) con cento parole quello che si potrebbe dire con due.
Su questo sfondo inquietante, poi, si innesta il secondo grande difetto della giustizia italiana: l’impreparazione e i limiti della magistratura. Limiti che nulla hanno a che fare con la competenza tecnica, beninteso, ma attengono piuttosto alla levatura morale dei magistrati, al loro codice di comportamento. La magistratura repubblicana, storpiata da un cattivo reclutamento e dall’eccessivo formalismo del sistema giudiziario, si è spesso e volentieri mostrata nei suoi aspetti deteriori: gelosa dello stile sciar adesco dei codici, che le garantisce l’esclusiva della “decrittazione”; insofferente a rimanere dentro i suoi confini; fin troppo sensibile ai cattivi esempi e alle cattive abitudini (un lusso concesso a tutti tranne che ai magistrati); vittima di pericolose infiltrazioni ideologiche. Fin dalla culla, si potrebbe dire: a cominciare dagli anni immediatamente successivi alla Liberazione, come testimoniano le clamorose omissioni sui delitti compiuti nel “triangolo della morte”, e proseguendo con l’operato dei cosiddetti pretori d’assalto, zelanti segugi al servizio non della giustizia ma dell’ideologia. L’inchiesta Mani Pulite, commentava Montanelli, è solo l’ultima voce in un lungo elenco di prove a carico della giustizia malata: nata per depurare i miasmi della politica, ha finito per amplificare i difetti della magistratura, denunciando un degrado ormai intollerabile.
Quali le soluzioni? Montanelli non si esprimeva sulla separazione delle carriere (“dove non c’è si vorrebbe introdurla, dove c’è si parla di cambiarla”), difendeva il diritto d’appello e il sistema italiano imperniato sul triplice grado di giudizio ma conveniva sulla necessità di accorciare i tempi medi del processo, ammonendo con Montesquieu che “giustizia ritardata è giustizia negata”. La via buona per raggiungere lo scopo, a suo parere, non consiste nell’accrescere gli effettivi della magistratura, in numero già bastante e colpevoli semmai di scarsa efficienza, quanto piuttosto nel “disboscare” la giungla delle leggi italiane, sfrondare e semplificare norme sostanziali e ancor più norme di procedura. Accanto a ciò sarebbe necessario prevedere nuovi criteri di selezione dei magistrati: non semplici concorsi basati sull’accertamento di una competenza tecnica, olimpiadi di “mozzorecchi maestri del cavillo”, ma veri e propri corsi di preparazione con lo scopo di forgiare il carattere, la moralità (orrendo, vitale termine sconosciuto ai più), l’impermeabilità alle tentazioni.
Quanto all’indipendenza della magistratura, il grande vecchio del giornalismo italiano se ne professava convinto sostenitore. “I problemi della giustizia agli uomini della giustizia, e solo a loro”: questo il principio guida, da cui deriva che il Consiglio Superiore dovrebbe essere composto di soli membri togati, anche a rischio di trasformarsi in una roccaforte di interessi corporativi. Montanelli, peraltro, ammoniva che il ragionamento, sacrosanto in teoria, è legato nella pratica a una fondamentale condizione: che il Csm non si consacri, come fa, all’intrusione del potere politico, non ne accolga emissari più o meno celati, non si divida in correnti riconducibili, se non proprio a partiti, almeno ad “aree” politiche. Sono precisamente queste distorsioni, questi condizionamenti ideologici, della cui esistenza non è credibile dubitare, a legittimare proposte di riforma che si muovono nel senso di accrescere la presenza dei cosiddetti “membri laici” all’interno del Csm e di aumentare il peso del Parlamento nella sua composizione. Se politica deve essere, si dice, che sia politica fino in fondo, alla luce del sole, nel rispetto della sovranità popolare.
Montanelli, dal canto suo, non ne era convinto. Temeva la commistione e più ancora lo scontro tra i poteri dello Stato, si opponeva a una politica onnipotente ma al tempo stesso diffidava di una magistratura che deborda, che indulge all’esibizionismo e al protagonismo, che incita la piazza e si divide al suo interno, una procura contro l’altra, che pretende addirittura di fare le leggi. Contro questo malcostume Montanelli invocava la “restaurazione” di certi principi fondamentali, che attengono all’equilibrio dei magistrati e al loro senso della missione, pur senza illudersi che qualcuno riuscisse a realizzarla: le idee dei dinosauri, ironizzava, coi dinosauri si estinguono. E intanto, come sempre, aveva colto l’essenza del problema: la giustizia dei codici, quella che si specchia in se stessa, che si avvita intorno a un formalismo sterile e senza uscita, è sempre più lontana dalla giustizia dell’uomo. Una riflessione semplice semplice, un’affermazione di buon senso che difficilmente ascolteremo in questi giorni.