Galli della Loggia e Monti dimenticano che fino a ieri tra i Pigs c’era l’Italia
02 Novembre 2010
Mario Monti sostiene che questo governo è immobile e non pensa alle riforme mentre Ernesto Galli della Loggia gli attribuisce solo una riforma che giudica irrisoria, cioè la abrogazione dell’ICI sulla proprietà della casa. E sostiene che l’ “immobilismo” del governo di centrodestra dipende dalle sue divisioni interne e quindi sollecita la formazione di un nuovo governo che, riunendo riformisti dei vari schieramenti, invece si dedichi all’attivismo.
Galli della Loggia non sembra rendersi conto che la crisi internazionale non è ancora finita, che bisogna tenere stretta la borsa, per arrivare all’obbiettivo del rapporto deficit Pil del 2,7 % nel 2012. E che la prudenza del governo dipende dalla scelta, giusta o sbagliata che sia, che esso ha fatto, di assegnare una priorità assoluta alla stabilità. E ciò sia per rispondere alle richieste in sede europea, sia per evitare i giudizi negativi dei mercati finanziari.
Sembra che questi professori si siano dimenticati che sino a ieri il termine “pigs” era usato per definire Portogallo, Italia, Grecia e Spagna, mentre ora alla lettera “I” c’è l’Irlanda.
E l’Italia non è considerato paese con rischio debitorio nonostante l’alto rapporto debito/Pil in quanto è riuscita a tenere il deficit a un livello relativamente basso e a garantire la riduzione in due anni, del deficit e del debito, in modo da assicurare la nostra solidità finanziaria.
Un governo che cura questi obbiettivi è immobile secondo le vedute neo keynesiane. E’ serio dal mio punto di vista e, guarda caso, dal punto di vista di Angela Merkel e degli economisti che, come me, reputano che questa politica sia la migliore per lo sviluppo di medio e lungo termine e per l’occupazione.
Mario Monti immagina che un governo costituito dai riformisti di destra e sinistra dovrebbe far uscire l’Italia dall’attuale immobilismo mediante un piano decennale di riforme strutturali, inserito nell’agenda di Lisbona. Auguri per questo compito ciclopico. Non si potrebbe essere un poco più concreti e meno utopici? Per altro il governo, nonostante le difficoltà, non è stato affatto immobile, per quanto riguarda le riforme.
La principale riforma liberalizzatrice che occorre in Italia, quella del superamento del contratto unico nazionale e dello sviluppo della contrattazione aziendale non compete allo stato, che la può solo affiancare e che la sta affiancando. Essa compete alle “parti sociali”, ossia alla Confindustria e alle altre organizzazioni imprenditoriali nei riguardi dei sindacati Cisl e Uil e altri sindacati liberi. Ad essi spetta accettare e sostenere il modello di contratto di lavoro aziendale basato sulla produttività, proposto da Sergio Marchionne e votato dalla maggioranza dai lavoratori di Pomigliano d’Arco, mentre la Confindustria sino ad ora non lo ha sostenuto con tutta la possibile energia. E sembra voler mantenere con Epifani un rapporto preferenziale, come si è visto in un recente abbraccio a Genova da parte di Emma Marcegaglia al leader della CGIL, mentre ancora questa organizzazione si mantiene contraria al modello contrattuale in questione.
Il governo, che aveva varato la detassazione degli straordinari in via sperimentale, per stimolare i contratti aziendali basati sulla produttività, ora per bocca del Ministro del Lavoro Sacconi dichiara che è disposto a sottoporre ad aliquota secca del 10% sia i compensi per orari straordinari, che quelli per lavoro notturno, che altre formule di flessibilità che discendono dal tale contrattazione decentrata. Sacconi ha varato una legge sull’arbitrato, che riforma in modo molto ampio il processo del lavoro e costituisce un passo avanti nella liberalizzazione del mercato del lavoro.
La riforma sarebbe stata di portata ancora più ampia se non ci fossero stati interventi della sinistra e dei suoi intellettuali per indurre il capo dello stato a rinviare alle Camere il testo, per la parte relativa ai licenziamenti. E il Capo dello stato ha effettuato tale rinvio. Così rimane ancora in piedi tutto il groviglio di decisioni dei giudici del lavoro che hanno stravolto il senso dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori trasformandolo in una barriera a ogni licenziamento.
Il Ministro Brunetta ha adottato misure che consentono di ridurre il personale statale di 400 mila addetti, una riforma della struttura della pubblica amministrazione di non poco conto.
E’ stata varata una riforma della tassazione dei fabbricati con la cedolare secca del 20% per quelli dati in affitto per uso abitazione. Questo provvedimento fa parte di un insieme di testi di disegni di legge che costituiscono l’attuazione della riforma federalista della nostra finanza pubblica. Si può essere a favore o contro questa riforma, ma non si può negare che si tratti di una grossa riforma che si muove nella direzione della concezione liberale del rapporto fra potere fiscale.
C’è poi la legislazione sulla privatizzazione degli enti locali, che è in corso di attuazione e che ha incontrato e incontra ostacoli a sinistra, per la privatizzazione della gestione dell’acqua.
C’è, in dirittura d’arrivo la riforma universitaria, che ha avuto una battuta di arresto, ma che entro la fine dell’anno entrerà in funzione. Il ritardo c’è stato, ma certamente la sinistra, che a questo riforma ha fatto e fa una tenace opposizione, come alle altre del Ministro Gelmini, non ha alcun titolo per dolersene. Ed è chiaro che se ci fosse un governo tecnico o di unità nazionale, in cui essa avesse un ruolo di primo piano, questa riforma verrebbe accantonata.
In chiusura, conviene menzionare almeno altre due riforme, che segnano una netta divisione di campo fra le due concezioni, quella del centro destra e degli altri schieramenti. Si tratta in primo luogo della possibilità di attuare una parte delle grandi opere in deroga alle macchinose leggi sugli appalti, mediante le procedure semplificate adottate dalla protezione civile, possibilità che è stata bloccata dai giustizialisti agitando la presunzione che ciò generi corruzione. E risulta difficile, per non dire impossibile, in questo clima giustizialista, ogni modifica del dirigismo macchinoso delle procedure sugli appalti e ogni snellimento delle competenze urbanistiche ed ambientali regionali e locali, che generano enormi ritardi nelle politiche delle infrastrutture.
Un’atra riforma di Berlusconi che è stata affossata in nome del diritto – in realtà a causa di un pervicace spirito dirigista – è la facoltà di aumentare le volumetrie delle case di abitazione. Le norme al riguardo si sono infrante sui no e i distinguo dei poteri regionali e delle opposizioni, che hanno sostenuto che questa liberalizzazione viola le competenze urbanistiche delle Regioni. In realtà si tratta di norme che estendono l’esercizio del diritto di proprietà edilizia.
Mario Monti sostiene che la modifica della costituzione per stabilire la priorità del diritto di libertà economica, che questo governo vorrebbe attuare è un inutile formalismo. Ma in realtà il cammino delle riforme verso una libera ed efficiente economia di mercato è ritardato dal fatto che all’infuori di questa maggioranza c’è ben poca volontà di procedere in tale direzione. Sicché la tesi per cui bisogna mandare a casa Berlusconi per fare le riforme che occorrono per far crescere l’Italia è l’opposto del vero. Questo governo deve fare di più per la crescita, nella stabilità, ma è l’unico che possa farlo.
Provocare una crisi adesso, mentre la stabilità non è ancora stata pienamente raggiunta e il cammino delle riforme è stato avviato, nella direzione giusta, pregiudicherebbe entrambi e costituirebbe un atto di autentica irresponsabilità. E il paese non lo capirebbe.