Gaza era un pegno di pace, Hamas ne ha fatto una macchina da guerra
12 Gennaio 2009
La tesi dell’onorevole D’Alema, almeno su un punto, è in fondo semplice e ben argomentata. Egli sostiene che la guerra di Israele contro Hamas, radicalizzando lo scontro tra Israele e palestinesi, stia delegittimando quelle componenti moderate del mondo arabo che, al contrario delle componenti terroristiche, hanno accettato l’esistenza dello Stato d’Israele e, per questo, si sono fin qui mosse in una prospettiva di pace. L’intervento a Gaza starebbe dunque sortendo effetti diversi o addirittura inversi rispetto a quelli desiderati. Compattando il mondo palestinese sulle posizioni più estreme, starebbe rendendo più incerta e minacciata la posizione di Israele. A Israele, dunque, per non venirsi a trovare in uno stato di guerra permanente non resterebbe che una prospettiva: trattare con Hamas sperando che questa possa essere recuperata alla prospettiva di “due popoli, due stati” rinunziando al proposito di distruggere in ogni modo lo stato ebraico che, è bene non scordarlo, costituisce il suo motivo fondamentale di legittimazione sia storica sia politica.
Al di là di ogni implicazione d’ordine morale, che in una discussione di politica estera è bene tener da parte, questo ragionamento presenta due incredibili limiti: il primo concerne lo scenario complessivo nel quale il conflitto si viene oggi a porre; il secondo riguarda proprio l’analisi di quel rapporto tra componenti moderate e componenti radicali del mondo palestinese sul quale D’Alema incentra la sua tesi.
Non siamo più al tempo della guerra fredda. L’azione della componente radical-terroristica del mondo palestinese non s’inserisce, dunque, nel quadro di uno scenario mondiale al cui vertice vi è comunque la ricerca di un equilibrio geo-politico. Al contrario, essa è parte di un contesto regionale nel quale uno Stato islamico-integralista, l’Iran, attraverso la costruzione della bomba atomica, cerca di conquistare un’egemonia su tutto il mondo islamico. Questa potenza, dichiaratamente anti-semita, ha lo stesso obiettivo di Hamas: distruggere Israele. E, per questo, muove il terrorismo palestinese come il suo braccio armato non consentendogli derive moderate neppure di tipo tattico. Il che aiuta a comprendere perché Hamas, anche di fronte alla terribile pressione a cui è sottoposta stia continuando imperterrita a lanciare missili e a puntare sull’allargamento del conflitto.
Quando D’Alema scrive che la trattativa con Hamas bisogna lasciarla fare a Sira ed Egitto, fa un ragionamento tutto politico e non tiene conto del fatto che Israele ora è in guerra proprio perché lo stillicidio dei missili di Hamas sulle sue città non possa più avvenire. Cosa che non sarebbe certo garantita da “contatti discreti in atto da tempo da parte di funzionari di diversi paesi europei” o con l’intervento di intermediari ambigui e fondamentalmente ostili.
L’errore più grave che le presunte colombe compiono, poi, è dimenticare cosa abbia significato Gaza negli sviluppi recenti del conflitto israeliano-palestinese. A quanti parlano di Gaza come di un nuovo lager, va ricordato che quella striscia di sabbia che i coloni avevano trasformato e resa abitabile, è stata restituita unilateralmente ai palestinesi da Sharon nel 2005. Era il prezzo che Israele pagò alla dirigenza palestinese post-Arafat, scommettendo che quel gesto potesse rafforzare la prospettiva della pace. Non fu un prezzo da poco. Israele si venne a trovare sull’orlo della guerra civile e, per effettuare lo sgombero, dovette usare la forza contro i suoi stessi cittadini. Il partito di Sharon subì una scissione e, con essa, corse il rischio di perdere la guida del governo.
Dopo meno di quattro anni, quel lembo di terra, nella cui rinuncia erano racchiuse le speranze di pace di un popolo offeso come nessun altro dalla storia, si è trasformato in una base missilistica contro Israele e in un gigantesco slum senza legge e senza futuro contro i palestinesi che lo abitano. Quello che doveva diventare un simbolo di riconciliazione con il fronte moderato di Abu Mazen e divenuto la ribalta militare e mediatica dei terroristi di Hamas.
Qui sta il vero punto politico di dissenso con D’Alema, ancora più profondo della convinzione che con forze di natura terroristica sia impossibile trattare. Il problema è proprio l’opposto di quello che l’ex ministro degli Esteri delinea nella sua lettera: non tanto cioè evitare rischio che la prosecuzione della guerra indebolisca i moderati quanto invece evitare che una tregua prematura rafforzi Hamas e la mostri al vittoriosa all’ammirazione dell’intero mondo arabo e in questo modo sì, produca la definitiva delegittimazione della classe dirigente moderata palestinese e di Abu Mazen.
Anche noi vogliamo la pace al più presto. Per questo non transigiamo sul fatto che dopo questo conflitto il rapporto tra Israele e la Palestina ritorni nel solco che Sharon e Abu Mazen scavarono quando Gaza fu restituita, senza deviazioni di carattere terroristico né influenze di potenze che dichiarano apertamente di voler riprodurre la più grande tragedia che la storia abbia mai concepito. La distruzione finale e definitiva del popolo ebraico.
Chi è dalla parte d’Israele e ne comprende la specificità storica e politica non può distinguere tra un’Israele buona e un’altra cattiva. E’ con i suoi intellettuali ma anche, e soprattutto, con il suo governo. E’ con lei quando governa la destra e quando governano i laburisti. E’ con lei nella buona così come nella cattiva sorte.
Per queste ragioni, se ci sarà un Israele Day, io ci sarò.