George L. Mosse, vittima e giudice del nazismo
17 Giugno 2007
Emilio Gentile è uno dei maggiori storici italiani dell’età
contemporanea che, come spesso avviene a chi arriva molto lontano nella ricerca
scientifica, nella sua vita professionale ha avuto la fortuna di avere due
grandi maestri: Renzo de Felice e George L. Mosse. Dopo i fiumi d’inchiostro versati
in questi anni sul conto del primo (più spesso da parte di chi conosceva a
malapena la sua produzione scientifica e per niente l’autore), ad opera di
Gentile esce ora una bella biografia intellettuale dello studioso tedesco intitolata
Il fascino del persecutore. George L. Mosse e la catastrofe dell’uomo moderno (Carocci).
Il titolo allude ad una circostanza narrata da Mosse nella
sua autobiografia: lui, figlio dei Lachmann Mosse, una ricchissima famiglia
ebrea proprietaria di un impero editoriale, all’età di quattordici anni ebbe la
ventura di assistere a Berlino ad un raduno del partito nazionalsocialista, a
cui partecipò lo stesso Hitler alcuni mesi prima di prendere il potere; ne restò
fortemente suggestionato, al punto che a distanza di sessant’anni scrisse nelle
sue memorie che “Ancora oggi devo ammetterlo: fu una esperienza, ne fui
trascinato”.
Ben presto dovette fronteggiare tutti gli immensi problemi
che il regime nazista creava agli ebrei, ma per sua fortuna riuscì ad
espatriare nella notte fra il 31 marzo e il 1° aprile 1933, pochi minuti prima
che entrassero in vigore leggi più restrittive. A soli quindici anni dovette
adattarsi a vivere lontano dal resto della famiglia, che aveva trovato rifugio
a Parigi; terminò gli studi dapprima in un collegio svizzero e poi in
Inghilterra, per approdare infine negli Stati Uniti nel 1939, alla vigilia
della Seconda guerra mondiale. Qui intraprese una brillante carriera accademica
(insegnò all’Università del Wisconsin a Madison e, a partire dal 1969,
all’Università ebraica di Gerusalemme) che lo portò a studiare l’Inghilterra
dei Tudor e i problemi religiosi della prima età moderna, prima di votarsi all’analisi
del fascismo e del nazionalsocialismo – che definiva la “catastrofe dell’uomo
moderno” – di cui è stato uno dei maggiori studiosi del Novecento.
Il quesito a cui si proponeva di dare una risposta è lo
stesso che assilla il grande pubblico: “Perché Hitler ha potuto attrarre tanto
sostegno popolare e governare con il consenso per molto tempo dopo la presa del
potere”? Con opere diventate dei classici imprescindibili, come Le origini
culturali del Terzo Reich (1964) e La nazionalizzazione delle masse (1975), Mosse
ha organizzato un’indagine molto legata ad elementi sociologici ed
antropologici, dando rilievo a quella che Walter Benjamin – che invece non ce
la fece a lasciare l’Europa e morì suicida in Catalogna – chiamava “estetica
della politica”.
“Mosse è stato una vittima del nazismo che ha voluto
conoscere da storico il suo persecutore”, scrive Emilio Gentile. Non riusciva
ad essere appagato dalla spiegazione marxista che vedeva nel fascismo una
reazione al servizio del capitale per impedire al proletariato di farsi classe
egemone; viceversa, nei suoi libri non si stancava di sottolineare come fosse
necessario non solo condannare, ma anche capire quanto era accaduto. Sul piano
dell’analisi storica un elemento che emerge costantemente è la sottolineatura del
carattere rivoluzionario dei movimenti fascisti, a fronte della diffusa
esigenza di sicurezza e di stabilità (la voglia di “una casa ben arredata”,
come usava dire) che, in Europa, serpeggiava dopo la fine della Grande Guerra.
Come spiega ancora Gentile “La trama fondamentale della storiografia di Mosse è
una visione tragica dell’uomo moderno, figlio di un’epoca di cambiamenti rapidi
e radicali, che producono progresso, benessere, emancipazione, ma, nello stesso
tempo, generano tensioni e conflitti, provocano disorientamento, incertezza,
paura, da cui scaturisce un bisogno di sicurezza, di stabilità, di fede, di
autorità”.
Memori dell’insegnamento crociano sulla “contemporaneità
della storia” (in cui credeva anche Mosse) ci chiediamo se questo senso d’insicurezza
non sia, nondimeno, una delle caratteristiche del nostro tempo, e se non sia
proprio questa la ragione che ha spinto Gentile a scrivere il suo libro su
Mosse oggi, lontano da ricorrenze o da altri facili pretesti. D’altro canto è
noto a tutti il neologismo coniato da Bernard-Henry Lévy – “fascislamismo” –
per mettere a nudo talune propensioni del radicalismo islamico. Ogni parallelo
storico è sempre arbitrario perché, nonostante gli innumerevoli aforismi che
dicono il contrario, con buona pace di Hegel e Marx la storia non si ripete, in
nessuna forma; tuttavia non si può negare il carattere reazionario della
teocrazia islamica, che ovunque è andata al potere ha messo al bando ogni
istanza liberale e progressista (nel senso letterale del termine!) e ha fatto
strame dei diritti umani e civili che, in Occidente, sono una conquista remota che
affonda le sue radici in un lontano passato, in un tempo che dista almeno
cinque secoli. Considerazioni banali? Forse, ma non per questo meno vere.
Emilio Gentile, Il fascino del persecutore. Geoerge L. Mosse
e la catastrofe dell’uomo moderno, Carocci, Roma 2007 (pp. 223 – 18,50 euro)