Georges Bernanos, san Domenico e l’insegnamento tradito

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Georges Bernanos, san Domenico e l’insegnamento tradito

Georges Bernanos, san Domenico e l’insegnamento tradito

28 Ottobre 2007

Di sacerdoti ce n’è pochi, e, di questi pochi, se ne può fare anche a meno.
Sembrano pensarla così i domenicani olandesi, che (lo si è potuto leggere nella
sempre puntuale rubrica on line di
Sandro Magister) stanno dando l’avvio a una nuova forma di celebrazione
eucaristica. La sperimentazione è già in corso: al
posto del prete ci sono uomini e donne designati dai fedeli e tutti assieme
pronunciano le parole della consacrazione, anch’esse variate a volontà. A
giudizio di quei figli di san Domenico, è quello che ha voluto il Concilio
Vaticano II. Sembra che i vertici romani dell’ordine siano imbarazzati, ma non
abbiano la forza (o la voglia) di intervenire.

La notizia dei domenicani olandesi mi ha spinto a
riprendere in mano, dopo tanti anni, un libro pubblicato da Longanesi nel 1954,
il San Domenico di Georges Bernanos.
Si tratta di un breve profilo spirituale del fondatore dell’Ordine dei
Predicatori, scritto nel 1926, un anno difficilissimo per lo scrittore
francese. L’anno della traumatica condanna dell’Action française da parte di Pio XI e, quindi, dell’inizio del suo
distacco da ambienti in cui si era mosso per oltre un ventennio. Si concludeva
allora sostanzialmente (aveva 38 anni) la prima fase della sua esistenza e
iniziava la sua carriera letteraria, che ebbe una prima, folgorante espressione
nel romanzo Sous le soleil de Satan,
uscito anch’esso in quel 1926.

Il tema su cui Bernanos comincia a riflettere –
scrivendo di Domenico di Guzman –  è
quello della santità, un  motivo che
ritornerà  puntualmente in tutti i suoi
romanzi degli anni Trenta. Che cosa lo colpisce di più nell’esistenza del santo
spagnolo e in quella di tutti i “santi” (quasi sempre anonimi, non canonizzati
dalla Chiesa) che si intravedono e, talora, sono protagonisti nei suoi romanzi?
L’unità intima e segreta della loro vita, che ruota tutta attorno a un nucleo
essenziale e non soffre doppiezze. L’«uomo di genio», l’intellettuale di
successo (il grande scrittore, l’artista sommo) – scrive Bernanos –  «ha sempre in sé qualcosa d’ostile e di
irriducibile, quasi un principio di sterilità». Può anche raggiungere «l’opera
d’arte compiuta», ma spesso al prezzo di una divaricazione irrisolta fra arte
(o scienza) e vita: a un’arte sublime, corrisponde sovente un’esistenza
«divorata d’orgoglio in un egoismo disumano», il suo capolavoro «è quasi sempre
una testimonianza spietata contro di lui». Ma anche il cosiddetto «uomo
perbene» nasconde in sé segreti irripetibili: «non c’è menzogna così compatta
che non abbia una breccia, o almeno che non possa essere sorpresa» e «il primo
sguardo del Giudice, di là dalla morte, lo farà andare in frantumi».

Nel santo, invece, si manifesta un’unità intima
fra opera e vita: anzi la sua opera è la sua stessa vita, ed egli è tutto in
essa. E’, davanti a noi, ciò che sarà davanti al Giudice: «in lui giungiamo,
abbagliati, non (come si vorrebbe farci credere) a una vita diminuita, di
continuo limitata dalla mortificazione, ma alla vita nella sua pienezza, e come
nello splendore del suo primo nascere, la vita stessa, quasi una sorgente
ritrovata». Soprattuto la sua santità è contagiosa, ne contiene in sé infinite
altre che dissemina nel tempo. Bernanos ha in mente anche altri «fondatori di ordini»,
come Benedetto, Francesco e Ignazio: «se fosse in nostro potere – afferma –
alzare sulle opere di Dio uno sguardo unico e puro, l’Ordine dei Predicatori ci
apparirebbe come la stessa carità di san Domenico realizzata nello spazio e nel
tempo, come la sua preghiera divenuta sensibile». Per questo rivestono uno
straordinario interesse le vecchie leggende che fiorirono a ridosso della loro
vita: esse sono la trascrizione simbolica e ingenua di «realtà profonde», del
senso che ebbe, per discepoli e amici, il contatto quotidiano con il maestro,
di come essi appresero e intesero le sue parole e il suo esempio.   

«Ogni vita di santo è come una nuova fioritura»: perciò Bernanos, più che
agli avvenimenti esteriori della vita di Domenico,  è interessato al modo in cui si sprigiona
dalla sua interiorità la sua grande opera: la fondazione dell’Ordine. E tutto
in un tempo relativamente breve: diciassette anni, duecentoquattro mesi! Perché
esso non nasce da un calcolo astratto, ma dalla «piena effusione della sua
vita»: è presente in Domenico, come poi sarà nei suoi figli, «una grande
avidità di scienza, come pure questo grande desiderio di instaurarla in
Cristo»; ma anche una «sacra impazienza» che lo spinge a vendere, in tempi di
carestia, i suoi libri: «Come potete studiare sopra pelli morte, mentre i
vostri fratelli muoiono di fame?». E  soprattutto un’umanità mai
completamente domata, anzi esaltata dalla scelta religiosa. Straordinario è il
modo in cui Bernanos la coglie nell’ultima ora del  santo:

«I fratelli sono adunati per raccogliere, se è possibile, qualche cosa della
parola che si sta spegnendo. Domenico fa segno con la mano, essi si avvicinano.
Dall’umile gesto del santo, capiscono che ha qualche riconoscimento pubblico da
fare, e che pesa gravemente sul suo cuore. Colui che è parso al papa Innocenzo
III in sogno portando la chiesa del Laterano sulle spalle, consigliere di
pontefici, consigliere dei principi, arbitro di tanti destini, maestro e
legislatore di tante coscienze, scopre forse con sgomento, in quell’istante
solenne, il carattere astratto, quasi terribile, della sua vocazione
dottrinale? Quale scrupolo lo tormenta? 
Egli alza sopra i fratelli i suoi occhi celesti, il suo sguardo intatto.
“Mi accuso”, dice il maestro dei Predicatori, “di aver sempre preferito, a
quella delle vecchie, la conversazione delle donne giovani”».

Un giorno Gesù Cristo disse a Caterina da Siena, che lo riferisce: «L’ordine
di mio figlio Domenico è un delizioso giardino, immenso, gioioso e profumato».
Così è stato per secoli. Lo ricordano i domenicani olandesi? Ci credono ancora?

Ripongo il libro sul suo scaffale, più perplesso di prima.