Gianfranceschi smascherò il “sistema della menzogna” del Sessantotto
26 Febbraio 2012
di Luca Negri
Non sono mancati i dovuti omaggi alla memoria di Fausto Gianfranceschi, scomparso lo scorso 19 febbraio all’età di 84 anni. Chi ha avuto il piacere di frequentarlo personalmente, amici e colleghi come Marcello Veneziani e Gino Agnese, è stato esauriente nel farci capire quanta stima e rispetto meritasse. Chi scrive non ha certo avuto l’onore di conoscere Gianfranceschi, per motivi anagrafici e percorsi culturali si è accostato tardi alla sua opera. Eppure si sente di dover fare la sua parte nel tramandarne la memoria, nell’invitare a prendere in mano i suoi libri (e a ristamparne qualcuno, possibilmente).
Secondo Gianfranceschi “le cose sarebbero chiarissime, se gli intellettuali non le spiegassero”. In questo senso, non possiamo ricordarlo come un intellettuale. Qualcosa di più, forse un saggio, perché ne esistono ancora. Un sapiente che si esprime più in massime e formule che in fiumi di parole; infatti eccelleva negli aforismi, così fulminanti e profondi che se fossero pubblicati dall’Adelphi, diventerebbero di culto come quelli di Nicolás Gómez Dávila.
In compagnia di Pino Rauti ed Enzo Erra, la minoranza “esoterica” e tradizionalista del Msi (erano i cosiddetti “figli del sole”) aveva appreso gli insegnamenti di Julius Evola e dell’antroposofo Massimo Scaligero. Fatto tesoro di quella sapienza parziale, si era poi riavvicinato alla maggiore complessità del cattolicesimo. Una fede ben salda nel sentimento del sacro, la sua, pronta a denunciare le confusioni sterili dentro la Chiesa; come quelle dei movimenti autoproclamatisi profetici emersi dalle ambiguità del Concilio Vaticano II, combattuti in un prezioso saggio del 1969, “Teologia elettrica”.
Col tempo si era avvicinato al centro della galassia missina, dalle parti di Almirante, ma non meramente politica era la sua vocazione. Grande lettore (“la fraternità con i libri è la più alta forma di vita sociale”), critico letterario, romanziere, pamphlettista, forgiatore di aforismi, giornalista e responsabile della pagina culturale de Il Tempo. Tutta la sua opera un poco scandalosa, un tentativo d’intralcio alla “paurosa efficienza del nulla”, al nichilismo trionfante, nemico molto più insidioso della sinistra politica da lui sbeffeggiata in un fortunato “stupidario” e in divertente “bestiario”. Gianfranceschi, fiero “reazionario”, saggio uomo di altri tempi, di alte latitudini e lucidità, poteva permettersi di elogiare la nostalgia, fingersi vinto in mondo che si crede vincente, lodare “la torre d’avorio”.
Consapevole che il cristianesimo è soprattutto incarnazione, concretezza, con una memorabile trilogia edita da Rusconi, aveva indagato “il senso del corpo”, smascherato “il sistema della menzogna” post-sessantottino (che aveva trasformato il piacere in diritto e slogan, inibendo il vero godimento), meditato sulla morte. “Svelare la morte” del 1980, frutto amaro del lutto per uno dei suoi figli (con l’appendice dolorosa di “Federica. Morte di una figlia” nel 2008) invitava proprio a non rimuovere la consapevolezza del trapasso che ci attende tutti, mentre la postmodernità cerca di farci credere immortali, purché consumiamo. In fondo, “nessun rimedio è all’altezza della morte”. Gianfraceschi, malato per anni, vero caso clinico in convegni di medicina, partorì l’aforisma: “Morire, che esagerazione!”. Ora che ha esagerato, a noi tocca onorarlo.