Giorgio Scerbanenco, un caso (letterario) un po’ giallo e un po’ noir
08 Marzo 2009
Giorgio Scerbanenco aveva alle spalle una storia bellissima quanto terribile. A cominciare dal suo vero nome, difficile da pronunciare, perché prettamente ucraino. Lo scrittore al mondo faceva, infatti, Vladimir Scerbanenko, era di madre italiana, mentre il papà era di Kiev, città dove il genitore svolgeva la professione di insegnante di liceo. Il futuro narratore rientra ben presto in Italia al seguito della mamma. I due, però, non se la passano tanto bene. Il piccolo Vladimir è perciò costretto a interrompere prematuramente gli studi per raggranellare qualche soldo. Così , un po’ alla maniera degli scrittori d’Oltreoceano, si ingegna nei mestieri più disparati. E’ fattorino, magazziniere, fresatore e via discorrendo, prima di arrivare ad affermarsi come una delle firme di punta del variegato universo dei periodici femminili dell’epoca dei “telefoni bianchi”.
Nella stagione del fascismo trionfante è oramai un gettonatissimo autore di racconti seriali e romanzi rosa. Una vera macchina da guerra di storie e intrecci. “A me piace scrivere”, ricorderà successivamente, tanto che “ho scritto dappertutto, e nelle condizioni meno confortevoli. Non mi occorre né solitudine, né silenzio, né scrivanie speciali. L’unica cosa di cui ho bisogno è la macchina da scrivere, una qualsiasi, anche la più scassata, perché voglio vedere subito chiaro e ben allineato quello che scrivo. Ho scritto nelle osterie, nelle camere d’albergo vicino al lavabo, a letto e in luoghi affollati dove tutti gridavano…”.
Eppure, il nostro dovrà attendere la metà degli anni Sessanta per essere accettato, con non pochi distingui e alzate di ciglia, nei quartieri alti della letteratura. Superati abbondantemente gli anta – era nato nel 1911 – diventa improvvisamente un caso. Ha sfornato solo da poco un singolare personaggio di Duca Lamberti, medico radiato dall’Ordine (“Come medico, aveva troppo pietà dei malati, voleva proprio curarli, voleva proprio guarirli, voleva proprio aiutarli… e aveva anche dolore del loro dolore, uno così non deve fare il medico”), esperto di quella nuova criminalità lombarda e dei suoi metodi, a cominciare dal notevole dispendio di violenza, che domina l’hinterland milanese.
Al singolare detective il giornalista-scrittore originario dell’Est Europa dedica una serie di polizieschi, ottiene l’ambitissimo Gran Prix de la littérature policière, che ne fa il primo italiano nell’Olimpo degli scrittori di genere. Solo per poco, Scerbanenco può godersi il meritato successo, muore, infatti, qualche mese dopo nel 1969. Ma prima di diventare il primo giallista nostrano celebrato all’estero, lo scrittore matura per gradi il suo talento per il thriller. Datato addirittura millenovecentotrentacinque il debutto, con le avventure dell’investigatore Tomy. Seguono, qualche tempo dopo, siamo in zona guerra, alcune fiction vere e proprie. E’ il caso di quelle con protagonista l’ispettore Jelling, un timidone che lavora in quel di Boston. “La bambola cieca”, uscito mesi orsono da Sellerio e praticamente passato inosservato, è la seconda prova di quella antica serie pubblicati dai “Gialli” Mondadori. Un libro curioso, brillante, godibile. Ancora lontano però dallo stile secco e feroce a cui ci ha abituato l’ultimo, superlativo e milanessissimo Scerbanenco.