
Giustizia è (s)fatta (di G.Quagliariello)

13 Giugno 2021
Chiunque abbia avuto la (s)ventura di osservare dal di dentro le vicende d’Italia degli ultimi decenni e le abbia guardate senza le lenti deformanti dell’ideologia, o più semplicemente si sia imbattuto a qualsiasi titolo in una controversia da dirimere o in un presunto illecito da giudicare, non avrebbe dovuto avere bisogno del libro di Luca Palamara e Alessandro Sallusti per sapere che la giustizia nel nostro Paese è un malato grave.
Non si tratta certo di generalizzare: ci sono tanti magistrati rigorosi e “silenziosi”, che svolgono con serietà il proprio ruolo senza cercare ribalte o impropri ruoli di “supplenza”, e che si sentono danneggiati dalla deriva in atto e dalla conclamata incapacità dell’ordine giudiziario di auto-riformarsi. Si tratta, piuttosto, di prendere atto di una situazione che va ormai ben oltre la patologia del rapporto fra giustizia e politica e dell’uso politico della giustizia, della quale tanto si è dibattuto in questi anni, ed è giunta a compromettere la concezione stessa della giustizia come servizio, la fiducia dei cittadini e l’affidamento del sistema economico-produttivo nei confronti di un settore così essenziale dell’amministrazione dello Stato. Un Paese nel quale chi subisce un torto rinuncia a chiedere giustizia, chi è accusato non gode delle dovute garanzie, chi potrebbe investire preferisce guardare altrove, è un Paese nel quale oggettivamente qualcosa non funziona.
Tutto questo lo sappiamo e lo diciamo da tempo. E’ un dato di fatto, tuttavia, che mai la credibilità di uno dei poteri dello Stato era giunta così in basso e così trasversalmente. E mai a un capitombolo di siffatte proporzioni era seguita una indifferenza così diffusa da sconfinare in rassegnazione.
Ecco perché i referendum promossi dalla Lega e dal Partito Radicale rappresentano un’occasione. Ed ecco perché darò il mio contributo alla raccolta delle firme affinché essi possano essere celebrati.
Non entro in questa sede nel merito dei sei singoli quesiti: ci sarà tempo e modo per farlo e per sviscerare adeguatamente argomenti che in alcuni casi possono trovare in una abrogazione netta la giusta soluzione, in altri possono richiedere interventi più articolati ai quali comunque l’iniziativa referendaria potrà aprire la strada. Ciò che mi preme ora evidenziare, e che mi induce a impegnarmi nella raccolta delle firme e a proporre al mio partito di fare altrettanto, è il messaggio che questa campagna sottende: non certo un intento punitivo nei confronti di una categoria, ma la presa d’atto che di fronte alla crisi che l’ha travolta la giustizia abbia bisogno non della tanto invocata autoriforma ma di una riforma che sia anche e soprattutto ordinamentale.
A ben guardare il discorso parte da lontano e se depurato di ogni approccio ideologico – cosa che la gravità della situazione generale del Paese impone – potrebbe incontrare un interesse ben più trasversale di quanto si immagini. Senza scomodare le bicamerali che si sono succedute nella storia della Repubblica e le pagine nascoste del dibattito in seno alla stessa Assemblea Costituente, basterà rispolverare un documento più recente, ovvero la relazione di quella commissione politico-istituzionale che fu insediata all’indomani delle elezioni politiche del 2013 per tentare di superare lo stallo che paralizzava l’avvio della legislatura. Quel gruppo di lavoro, nel quale erano rappresentate le diverse scuole di pensiero (ne facevano parte, insieme a Mario Mauro e al sottoscritto, Luciano Violante e Valerio Onida), in un momento nel quale lo scontro fra politica e giustizia era all’apice, produsse incredibilmente proprio sulla giustizia il capitolo più avanzato di un possibile programma condiviso di riforma. Dall’equilibrio fra i poteri alla limitazione della giurisprudenza creativa, dall’effettività delle garanzie nel procedimento penale a una giustizia “non domestica” in tema di disciplina dei magistrati, fino a meccanismi di contenimento dello strapotere delle correnti: una piattaforma importante che suona oggi incredibilmente attuale.
Come quella legislatura sia andata a finire, al pari dei tentativi precedenti di sciogliere il nodo che forse più di ogni altro imbriglia la libertà e lo sviluppo del nostro Paese, è un dato che appartiene ormai alla storia più che alla cronaca. Ma, per dirla con Tolkien, le radici piantate in profondità non gelano. E chissà che nel pieno della crisi più grave dai tempi del dopoguerra una campagna referendaria possa rinverdirle e contribuire affinché finalmente germoglino.
Tutto ciò, tra l’altro, potrebbe conseguire l’ulteriore risultato di rivitalizzare, sia dal punto di vista politico che istituzionale, l’istituto del referendum, che spesso è stato male usato e anzi addirittura abusato. Sul fronte politico, un tema come la giustizia potrebbe restituire allo strumento referendario il suo carattere di trasversalità: il “Sì” e il “No” per loro natura attraversano gli schieramenti e tanto le posizioni che stanno emergendo all’interno del Pd, quanto il fatto che a promuovere i sei quesiti siano state due forze come la Lega e il Partito Radicale che non vanno d’accordo praticamente su null’altro, lascia ben sperare sul fatto che questa dinamica possa innescarsi. Quanto all’aspetto istituzionale, non bisogna dimenticare che il referendum, istituito di democrazia diretta, è complementare e non sostitutivo rispetto alla democrazia rappresentativa. In quanto tale, oltre all’effetto abrogativo su norme vigenti esso – come già accennato – potrebbe produrre quello ulteriore di stimolare le istituzioni rappresentative a fare la propria parte. Le riforme che dovranno accompagnare e sostenere il Recovery Plan sono a loro volta un’occasione: la spinta referendaria potrebbe essere decisiva per indirizzarle nella giusta direzione.