Giustizialismo e radicalismo individualista sono i mali della sinistra

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Giustizialismo e radicalismo individualista sono i mali della sinistra

30 Marzo 2009

La prima fase della segreteria di Dario Franceschini (con proposte come quella di un assegno generalizzato di disoccupazione, di un fondo contro la povertà o di una “tassa sui ricchi”) ha fatto pensare ad una strategia tesa in primo luogo al recupero di un profilo “di classe” del Partito democratico. Contemporaneamente, il suo richiamo alla fedeltà ai valori della Costituzione sembra suggerire la riproposizione – contro il progetto veltroniano del partito riformista “a vocazione maggioritaria” – di una coalizione sul modello dell’Ulivo o della Unione, comprendente un’ampia gamma di gruppi dai cattolici ex-democristiani alla sinistra radicale. Due direttrici che, insieme, implicherebbero il ritorno all’idea di un centrosinistra fondato su un asse “dossettiano”, cioè sull’originaria fusione tra la tradizione cattolico-sociale e quella post-comunista.

Un simile progetto, tuttavia, appare destinato ad un inevitabile insuccesso. Nell’opinione pubblica di riferimento della sinistra ex-ulivista ed ex-“unionista”, infatti, prevalgono ormai largamente tendenze culturali-ideologiche con esso incompatibili.

La strategia “dossettiana” traeva la sua ragion d’essere dal fatto che i cattolico-sociali avevano come interlocutori gli immediati eredi del Pci, in cerca di uno “sdoganamento” democratico, offerto dalla sinistra ex-democristiana sotto l’egida della continuità con la linea del “compromesso storico” di Moro e Berlinguer, in funzione di contrapposizione frontale al berlusconismo. All’epoca della formazione dell’Ulivo, sotto la leadership di Romano Prodi, l’eredità “cattocomunista” veniva dunque rivisitata in senso bipolare, come nucleo originario di una coalizione governativa. E tuttavia, man mano che la sinistra ex- (o post, o neo-) comunista progrediva nel suo percorso di integrazione nel sistema politico e di legittimazione al governo, quel fondamento perdeva sempre più consistenza.

Tale smottamento va ricondotto al vuoto ideologico prodotto dalla caduta mondiale del comunismo in una sinistra in cui i comunisti avevano detenuto per lungo tempo un’egemonia quasi incontrastata: un vuoto che non veniva colmato da un ritorno nell’alveo della cultura socialdemocratica e liberaldemocratica. Il polo riformista costituito dal Partito socialista di Bettino Craxi, infatti, era stato intanto distrutto non soltanto dagli attacchi giudiziari, ma da una campagna di demonizzazione ed isolamento proveniente in gran parte proprio dalla sinistra ex-comunista, che vedeva nella disfatta craxiana una vendetta contro il progetto che ne metteva radicalmente in questione la supremazia; e, nel contempo, una rivincita al proprio fallimento, un modo per non apparire sconfitta rispetto ai rivali socialisti nel momento in cui i propri fondamenti ideologici venivano rovinosamente meno. Uniformarsi alla tradizione riformista avrebbe significato per il Pds ammettere di avere avuto storicamente torto.

Quella mancanza di punti di riferimento, dunque, si trasformava ben presto in un vero e proprio “buco nero”: la sinistra italiana veniva colonizzata da culture politiche che fino a poco prima erano per essa “aliene”, ma che erano ora in grado di svolgere presso l’opinione pubblica di riferimento un’efficace funzione aggregante in surroga alla vecchia militanza di tipo ideologico-totalitario. E, soprattutto, di continuare a confortare in essa la convinzione – risalente proprio alla tradizione comunista, e perpetuata nella sua decadenza attraverso l’idea berlingueriana della “diversità” comunista – della propria indiscutibile superiorità etica sugli avversari. Queste due culture sono il radicalismo antipolitico a base moralistico-giustizialista e l’individualismo radicale-libertario, fondato su una visione del mondo scientista ed integralmente secolarizzata.

Anche negli altri paesi occidentali la cultura della sinistra è stata posta radicalmente in crisi dalla fine del comunismo, che ha trascinato in gran parte con sé anche i presupposti della socialdemocrazia e del welfare nati in ambiente di guerra fredda davanti all’incalzare della globalizzazione “mercatista”. Ne è derivata, in larga parte, la mutazione genetica del vecchio “progressismo” socialista o liberal nella para-ideologia del politically correct, in cui si raccoglie un coacervo di pulsioni moralistiche colpevolizzanti ed autocolpevolizzanti veicolate nella cultura politica diffusa: il catastrofismo ecologista, il richiamo ossessivo al rispetto delle minoranze, il generico addebito di ogni male del mondo alla civiltà occidentale, e simili. Questi elementi sono intervenuti, certo, a caratterizzare cospicuamente anche l’opinione politica di quella che era stata la sinistra marxista italiana. Ma nel nostro paese i motivi di aggregazione e mobilitazione decisamente prevalenti in quell’area dopo il 1989 sono stati quelli connessi, da un lato, ad una contrapposizione radicale tra “onesti” e “disonesti”, tra una società civile “sana” ed una classe dirigente (politica ed economica) “corrotta”; dall’altro, ad una rivendicazione intransigente della “realizzazione” individuale e della “qualità” della vita, in opposizione a qualsiasi restrizione sociale e culturale.

L’antipolitica moralista-giustizialista, esplosa con il collasso del sistema politico all’inizio degli anni Novanta, ha trovato i suoi leaders soprattutto in magistrati, giornalisti, uomini di spettacolo considerati da una vasta fascia di opinione pubblica come alternativi al malcostume del ceto politico. Il radicalismo individualista – facendo proprie e banalizzando idee che fino a pochi decenni fa erano sostenute a sinistra soltanto dal movimentismo libertario dei radicali di Marco Pannella – ha assunto come controparte assoluta qualsiasi visione tradizionalista della società, e quindi in primo luogo la Chiesa cattolica, per eleggere a suoi portavoce scienziati, uomini di cultura e di spettacolo proclamanti l’obiettivo di una totale liberazione dei desideri individuali, fino all’autodeterminazione totale sulla vita e la morte e alla subordinazione della vita a standard materiali di “dignità” della stessa.

Pur nelle loro molte differenze, queste due “ideologie” ormai egemoni nell’opinione pubblica convenzionalmente ancora classificata come “di sinistra” hanno in comune un aspetto rilevante: un elitismo aristocratico, diffidente verso le scelte della “gente comune” ed inclinante verso una “messa sotto tutela” della democrazia (da parte di magistrati ed intellettuali in un caso, di scienziati “illuminati” nell’altro). Che, a sua volta, rivela un nichilismo di fondo nella visione della realtà umana e sociale, considerata come dominata da un caos radicale: ora esorcizzato attraverso il richiamo a figure arcaiche di autorità, ora vezzeggiato in una deriva apertamente anarcoide.

In un tale contesto, comunque, un’agenda politica imperniata su motivi genericamente “sociali” o su un ennesimo ripescaggio del mito dell’unità antifascista e della Costituzione, al di là del recupero di qualche elettore della sinistra “radicale” e di una marginale quota di astensionismo, non sembra destinata a riconquistare il consenso di gran parte dell’opinione pubblica di provenienza ex-Pci-Pds-Ds (e in parte ex-sinistra Dc). In quell’area, infatti, personaggi come Di Pietro, Travaglio, Santoro o Grillo da un lato, Umberto Veronesi o Piergiorgio Odifreddi dall’altro, sono ormai strutturalmente più popolari di qualsiasi dirigente del Partito democratico, perché esprimono paradigmi para-ideologici consolidati e immediatamente comprensibili. Come confermano le diffidenze già emerse verso Franceschini perché non abbastanza allineato sull’ortodossia secolarista ormai dominante nella cultura diffusa a sinistra, o i malumori che emergono dai militanti – soprattutto quelli più giovani – verso il partito, reo ad avviso di molti di non incalzare sufficientemente la maggioranza sulla “questione morale” e sul conflitto d’interessi del premier, “abbandonando” questi temi a Di Pietro.

Si può dunque ragionevolmente prevedere che anche il Pd di Franceschini, come quello di Veltroni in precedenza, verrà prima o poi inevitabilmente trascinato nel “buco nero” dei due radicalismi, alienandosi una parte cospicua dell’opinione pubblica moderata – riformista, cattolica, liberaldemocratica – che aveva creduto nel progetto di partito riformista maggioritaristico. Con la tendenza, che già si delinea, alla trasmigrazione di settori del partito verso lidi centristi: a cui si contrapporrà la persistenza di un ampio, turbolento ma minoritario serbatoio di “antagonismo” giustizialista-laicista.

Il probabile ricorso, per l’ennesima volta, alla parola d’ordine dell’antiberlusconismo allo scopo di frenare questa deriva e di ricompattare, almeno in parte, l’elettorato non otterrebbe altro effetto che quello di alimentare ulteriormente la duplice radicalizzazione: precludendo per molto tempo ancora la possibilità di costruire una formazione in grado di attrarre il consenso decisivo dei settori non pregiudizialmente schierati della società italiana.