Gli adolescenti americani hanno il mito di Edgar Allan Poe (e non sono i soli)
04 Ottobre 2009
La storia che sto per raccontare non ha nulla di straordinario. Chi conosce le cose della vita, una mente consapevole dei capricci umani e delle trame ingarbugliate del destino, la troverà tutt’altro che stupefacente. Se non proprio comune, quantomeno poco originale. La classica parabola del poeta maledetto… Con l’unica differenza che di quella parabola la storia in questione è forse l’esempio più famoso e celebrato. Per goderla appieno occorre uno sforzo di immaginazione. Un fuoco che arde nella penombra di un salone poco illuminato, il grido di un corvo che attraversa i vetri e poi il racconto può cominciare.
Edgar Allan Poe nacque a Boston il 9 gennaio del 1809 da David, giovane esponente della borghesia cittadina e attore per diletto, ed Elizabeth Arnold, “vedette” di provincia sbarcata dall’Inghilterra. Come un misterioso imprinting i genitori di sangue gli trasmisero un profondo gusto per la rappresentazione: i loro “spiriti animali”, lodati dai critici che li ammiravano in palcoscenico, si riversarono nel piccolo Edgar sotto forma di una passione incontenibile per l’arte e un’irrequietezza maledetta, un’incostanza viziosa che non l’avrebbe più lasciato.
Nemmeno tre anni dopo, i Poe morirono di tisi a poche settimane di distanza l’uno dall’altra e il bimbo, un puttino vivace ed affettuoso, passò in un orfanotrofio. Qui fu in seguito adottato dagli Allan, una facoltosa famiglia del sud segregazionista, e trascorse una giovinezza agiata tra viaggi in Europa, studi nella “vecchia Inghilterra” e facili divertimenti. Eppure sulla vita da rampollo sudista incombeva un’ombra: Edgar soffriva l’assenza di un legame di sangue con gli Allan, sentiva il richiamo delle origini, smaniava per trovare il suo posto nel mondo. Frequentò l’università ma era inquieto, incostante, perennemente insoddisfatto. Cadde preda di vizi e ubbie: perdeva denaro al gioco e leniva il dolore con l’alcol.
I rapporti col signor Allan si deteriorarono bruscamente. Per sfuggire a una convivenza ormai insopportabile Edgar girovagò per le università del paese, si arruolò nell’esercito, entrò addirittura nell’Accademia militare di West Point. Alcuni biografi della prima ora collocavano in questi anni anche un rocambolesco viaggio in Europa, compiuto per lottare al fianco dei Greci contro l’Impero Ottomano e concluso con una fuga a San Pietroburgo e un precipitoso rimpatrio; ma si tratta, è stato poi accertato, di un episodio romanzesco, privo di qualsiasi fondamento. Di certo c’è che la disciplina militare non faceva per il giovane Poe, che dopo un anno di continue intemperanze e ammutinamenti fu espulso con disonore da West Point. Da quel momento, per un bizzarro contrappasso, il lungo mantello che copriva la divisa dei cadetti d’accademia divenne il suo capo d’abbigliamento preferito.
Diseredato dal padre adottivo, carico solo dei primi manoscritti di poesie e racconti, Edgar si rifugiò a Baltimora dalla zia materna Mary Clemm e lì conobbe la cugina Virginia, l’amore della sua vita, la musa di tutte le sue opere più ispirate. Nel 1836, appena quattordicenne, la sposò col beneplacito di Mary, che per il nipote nutriva un affetto speciale, quasi un sentimento materno. Per i tre iniziò una vita di stenti, in marcia tra le grandi città della costa atlantica alla ricerca di un giornale disposto ad assumere Edgar. Quando finalmente alcune riviste gli affidarono la direzione della pagina culturale, però, Poe si bruciò carriera e reputazione con una condotta dissennata. Schiavo delle sue manie, infrangeva tutte le regole del buon senso; per quanto tentasse non riusciva a liberarsi dalla dipendenza verso l’alcol.
Lentamente la vita di Edgar Allan Poe scivolò nel baratro, in un rincorrersi di errori umani, cattiva volontà e tragico destino. Sembrava quasi che lo scrittore camminasse su un terreno franoso: più cercava di risalire la china e più sprofondava. Per guarire la moglie, malata ai polmoni, si trasferì in collina a Fordham, un sobborgo di New York; e invece proprio qui si consumò la tragedia. Virginia morì lasciando Edgar nella disperazione: un tunnel buio e popolato di incubi, paurose allucinazioni, mostri che uscivano a infestare la realtà.
La miseria ormai lo opprimeva, l’alcol lo stava consumando e il successo non si decideva a premiarlo. Per un breve periodo si guadagnò una certa notorietà recitando in pubblico la sua poesia più celebre, The raven, che gli avrebbe procurato l’ammirazione di critici e colleghi. Torvo e intabarrato, reso più credibile dalla malinconia, Poe declamava il suo lugubre poema della memoria in biblioteche gremite, spuntando lauti compensi per le sue esibizioni. Ma gli effetti di una vita sregolata lo raggiunsero prima della consacrazione… Come in una storia di fantasmi, lo spettro di colei che aveva amato e che per lui era morta, tra gli spasmi di una miseria atroce, tornò a reclamarlo. Il “delirium tremens”, il triste regalo che gli aveva lasciato andandosene, lo assalì all’improvviso alla vigilia di una recita, come altre volte, stavolta senza scampo.
Lo trovarono la mattina del 7 ottobre 1849 su un molo del porto di Baltimora, pallido e intirizzito, i lineamenti composti in una specie di felicità. Tutto finiva al lume di una cattiva stella, com’era cominciato, e tutto prometteva di essere infinito. La morte di Poe esplose in tutta l’America come una rivelazione: le tenebre e l’oblio, che l’avevano perseguitato fino a schiacciarlo, si squarciarono; come un faro puntato apparve un improvviso interesse per la sua attività letteraria.
Fin dall’inizio, nei circoli e nelle accademie, l’arte estrema e ambiziosa di Poe suscitò aspri contrasti. Ciò nonostante la sua fortuna presso il grande pubblico è stata via via crescente: un’onda di marea che ancora oggi non accenna a calare. Da una ricerca del Weekly Standard, la bibbia dei neocon d’oltreoceano, risulta che Poe è l’autore americano più popolare tra gli adolescenti.
Dal 1923 la Poe Society di Baltimora si occupa di tenerne viva la memoria organizzando convegni, esposizioni, visite guidate sui luoghi a lui cari, accompagnate ogni volta da un entusiasmo e una partecipazione fuori dal comune. A suo nome è stato istituito negli Stati Uniti il premio più importante per la narrativa “mistery”, l’Edgar Allan Poe Award, e il francobollo emesso dalle poste americane all’inizio di quest’anno per celebrarne il bicentenario della nascita è andato letteralmente a ruba.
Sul versante della critica, al contrario, il successo di Poe è stato piuttosto altalenante. Nell’antologia “I poeti e la poesia d’America”, pubblicata nel 1842, gli era dedicata una breve nota biografica a firma di Rufus Griswold. Nelle edizioni del 1850 e del 1855 Griswold arricchì la sua nota con commenti critici sostenendo che Poe si distingueva “per l’approccio metafisico alle passioni, una sensibilità ovattata, un’immaginazione tenebrosa e un gusto pressoché infallibile nella percezione del tipo di bellezza che meglio si sposava col suo temperamento”. Lo scrittore di Boston era definito “un uomo geniale”, che tuttavia “sprecò o sciupò il suo genio”.
In mezzo c’era stato il necrologio di Poe, pubblicato dallo stesso Griswold sulle colonne del New York Weekly Tribune e da molti ritenuto diffamatorio. Con una punta di livore, infatti, Griswold dipingeva Poe come un sognatore, perennemente assorto in un mondo fantastico, fosse esso l’inferno o il paradiso. E insieme ne tracciava un profilo caustico: ambizioso, egoista, privo di compassione e senso dell’onore, risentito invidioso e irascibile sotto un velo di freddo cinismo.
Per cercare di riabilitare Poe intervenne un suo vecchio amico e mentore, Nathaniel Willis, che in più occasioni ne celebrò l’umiltà, la perseveranza, la fiducia nel prossimo, l’amicizia cordiale e riconoscente. La sua descrizione, come di un individuo immorale e depravato, gli sembrava il ritratto parziale di una persona ormai malata, che era stata tutt’altra in piena salute.
Più tardi, in un saggio del 1856, Charles Baudelaire sommò le ipotesi di Willis e Griswold facendo di Poe l’emblema dell’elezione e della dannazione. Un angelo divorato dal mondo che non lo capiva, un genio bruciato dalla sua genialità, dalla stessa scintilla prodotta negli ingranaggi troppo acuminati del suo cervello. Una specie di Prometeo, punito dagli dei perché gli dei l’avevano fatto troppo bello. Così, sovrapponendo la sua immagine a quella dello scrittore americano, Baudelaire ne consacrò definitivamente la reputazione di poeta maledetto.
Quanto alla valutazione dell’opera di Poe, lo scontro tra i critici non è stato meno aspro. Il partito degli ammiratori ne ha lodato l’ingegnosità, l’immaginazione e la forza eccezionale nella “narrazione tragica”. Il club dei detrattori, che annovera personalità del calibro di Henry James, gli ha rimproverato la mancanza di “serietà”, lo stadio primitivo della sua riflessione, la “sconvenienza” e i facili artifici del suo stile. “Come sfoggiare un anello di diamanti a ogni dito”, secondo la definizione del critico Aldous Huxley.
Al solito, la verità sta nel mezzo. Più di tutto Poe è un cantastorie, profondo conoscitore dei segreti della narrazione, padrone degli stratagemmi per suscitare emozioni. Artifici a volte compiaciuti e rudimentali, perfino scontati, ma sempre efficaci. Senza contare l’inganno della prospettiva storica: quello che sembra banale all’occhio scaltrito di un commentatore “postmoderno” costituiva un raro esempio di avanguardia a metà dell’800.
Poe è un pioniere, con tutti i meriti e i limiti di un pioniere. E’ l’inventore del filone fantastico e di quello poliziesco, a lui si devono i capisaldi – e insieme gli stereotipi – del racconto cosiddetto dell’orrore. E’ un raffinato evocatore di stati d’animo, col senso dell’armonia e delle proporzioni, un gusto innato per la rappresentazione, un senso perfetto del “colpo di teatro”. E’ un esteta allucinato e lucido, che rimesta ossessivamente nella vertigine dell’assurdo, prepara con cura l’effetto del brivido e lo innesta su uno stile piano, stranamente logico, regolare, uno stile da scienziato più che da romanziere.
Di scienze fisiche e matematiche, in effetti, Poe era grande appassionato, come di ipnosi, mesmerismo e altre “discipline sperimentali”, e a questo bagaglio di conoscenze attingeva per costruire i suoi congegni narrativi, per rendere al tempo stesso inquietante e verosimile “l’eccezione nell’ordine morale”. Proprio la cultura, lo spirito di ricerca, l’appello alla ragione di una mente sospesa sull’orlo del baratro, testimoniano la serietà e la sincerità dello scrittore. Il suo sforzo è, nonostante tutto, capire; il suo terrore deriva dall’assenza di spiegazioni. Se anche la sua penna costruisce giochi, si tratta di giochi drammaticamente seri.
Del resto Poe è pur sempre il filosofo di Eureka, l’autore della cosmologia letteraria più acuta e illuminante degli ultimi due secoli, uno scrigno di intuizioni e consonanze sorprendenti con la scienza moderna (a cominciare dall’idea dell’espansione dell’universo).
Eppure, con ogni probabilità, l’essenza del fenomeno Poe risiede altrove. La sua fortuna e la sua influenza superano la letteratura per approdare sul terreno del puro simbolo. In un processo che accomuna gli artisti più estremi e talentuosi, Poe è riuscito a far aderire completamente la sua vita alla sua arte. E’ riuscito a crearsi un look, uno stile, un contegno non solo letterario ma umano, quotidiano. Più o meno volontariamente ha “interpretato” se stesso. Come Hemingway, molto prima di Hemingway.
Oggi, nell’era dell’immagine, quell’intuizione è diventata un veicolo formidabile di immortalità: il modo per circondarsi di un’aura mistica, per attrarre un seguito di fedeli e instaurare un culto. Per schiere di fan Poe rappresenta, nell’immaginario, l’emblema del genio misterioso e demoniaco, l’eroe sfortunato, il poeta maledetto lambito dalle tenebre. Spogliato dei contorni storici, degli attributi della personalità, il maestro del brivido è asceso al rango di icona pop. Solo questo, tutto questo, e nulla più.