Gli antenati schiavisti di Barak Obama

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Gli antenati schiavisti di Barak Obama

25 Marzo 2007

Immaginate che al momento dell’elezione del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, qualcuno avesse tirato fuori il suo albero genealogico. E avesse magari scoperto che, cinque generazioni or sono, i suoi antenati erano dei latifondisti sfruttatori di braccianti. Forse che ciò gli avrebbe alienato i voti dei suoi ex-compagni del Partito Comunista Italiano? O, peggio, che un suo bis-bis-bis-bisnonno avesse partecipato al fianco di Giuseppe Garibaldi e Nino Bixio alla conquista del Sud Italia. Avrebbe così perso, nonostante il suo cognome, l’appoggio dei parlamentari meridionali?

Tali possibilità non ci sarebbero nemmeno venuto in mente, se non fosse che pochi giorni fa, negli Stati Uniti, qualcuno ha cercato di minare la popolarità del candidato presidenziale, Barack Hussein Obama, mostrando che prima della Guerra Civile (1861-1865) due o più tra i suoi antenati per parte di madre erano proprietari di schiavi. Che il colpo sia andata a segno lo prova il fatto che il povero Obama, quasi fosse colpa sua, ha subito cercato di difendersi, spiegando che lui, pur afroamericano (madre del Kansas e padre del Kenya), aveva sì degli antenati schiavisti, ma anche altri avi che avevano invece eroicamente combattuto con le armate del Nord per la liberazione del Sud dall’infamia della schiavitù.

Ora, è vero che nella Bibbia le maledizioni venivano allegramente (e tragicamente) dispensate di padre in figlio “fino alla decima generazione”. Ma si trattava comunque di qualche millennio fa, quando ancora popolazioni intiere venivano massacrate per vendicare le presunte colpe di alcuni. Da allora  il mondo occidentale ne ha fatta di strada, almeno sul piano del diritto dell’individuo a essere giudicato soltanto per ciò di cui è direttamente responsabile. Insomma, se il nonno di Obama aveva degli schiavi, lui che colpa ne ha, e perché questo dovrebbe costargli dei voti?

Quello dell’uso della storia a consumo della politica è un problema ben noto. Si pensi soltanto a quanto è successo qualche anno fa quando si è trattato di ricordare Cristoforo Colombo e il cinquecentenario della scoperta dell’America. Più che un’occasione di indagine storica, le “celebrazioni” si sono trasformate in un atto di contrizione collettivo da parte del mondo occidentale. Nessuno nega che molti indiani abbiano sofferto a causa di violenze e ingiustizie direttamente legate all’arrivo degli europei nel Nuovo Mondo. La ricerca storica serve anche a descrivere quelle violenze e quelle ingiustizie. Ma, francamente, che cosa c’entrano gli americani o gli europei di oggi? Siamo forse tornati alle incancellabili colpe dei popoli, ai manifesti destini delle nazioni, alle innate caratteristiche delle civiltà? Forse che il fatto di essere nato a Genova come Colombo mi trasmette automaticamente le sue colpe e i suoi peccati? 

Al di là dell’uso pretestuoso e direttamente politico di certe rivendicazioni, il fatto è che ciascuna comunità ha un suo momento identitario fondante del quale un numero consistente di persona ritengono di non poter fare a meno. (Si pensi agli odi etnici dei paesi balcanici, tanto per dirne una, le cui origini si perdono nella notte dei tempi.) Negli Stati Uniti, per la comunità di origine europea sia la Rivoluzione Americana (1776-1783) che la Guerra Civile restano dei momenti fondamentali di identità. Ed è proprio da tale necessità identitaria che nascono tanto le accuse di traslato schiavismo rivolte a Obama, il candidato presidenziale di origine afroamericana (che di quell’etichetta farebbe volentieri a meno), quanto la sua risposta, che implicitamente prende sul serio tali assurde accuse.

Invece in Italia a nessuno (se non ad alcuni storici o genealogisti) importa sapere se gli antenati di Napolitano siano per caso stati dei latifondisti o dei garibaldini, perché la nostra identità nazionale e comunitaria non va oltre il 1945. Ormai non riusciamo più a identificarci con nessun altro momento della nostra storia. L’impero romano, il Rinascimento, il Risorgimento, l’Unità d’Italia, il Piave, Alberto da Giussano e i Vespri Siciliani ormai non interessano più nessuno. Dopo tanta orgia di nazionalismo patriottardo, siamo tornati a essere una penisola, un luogo geografico, un grande condominio, dove i ricordi comunitari non vanno più indietro di ciò che hanno vissuto i nostri nonni.

E forse è meglio così. Noi non c’entriamo niente con quello che hanno fatto, di bene o di male, quei nostri antenati che non abbiamo mai conosciuto. Non dobbiamo sentirci in colpa per i delitti da loro commessi né gloriarci delle loro epiche imprese. Se l’indebolimento dell’identità comunitaria è il prezzo da pagare per ottenere più tolleranza, più rispetto reciproco e più libertà, per migliorare in sostanza il livello di convivenza civile tra gli individui, ben venga l’affievolirsi del senso di appartenenza a una propria comunità distinta.

Ciò non toglie che sarebbe ancora meglio se non fossimo costretti a “dimenticare per meglio convivere”, e se il ricordo (per il tramite dell’esperienza personale) e la conoscenza (per via del patrimonio storico e culturale) di quanto hanno fatto, sofferto e goduto i nostri genitori e progenitori rimanesse con noi il più a lungo possibile e informasse le nostre azioni e i nostri pensieri. Noi non siamo responsabili del nostro passato, ma non siamo nemmeno la prima generazione in terra.