Gli applausi al congresso Usa per Netanyahu sanno di vittoria di Pirro

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Gli applausi al congresso Usa per Netanyahu sanno di vittoria di Pirro

25 Maggio 2011

Gerusalemme. “Il Congresso sionista” ironizza Yedioth Ahronoth, il più letto quotidiano israeliano. Durante il suo discorso al Congresso degli Stati Uniti, Benjamin “Bibi” Netanyahu è stato applaudito 45 volte e la platea gli ha reso onore scattando in piedi 31 volte, registrano i cronisti. Se le stesse parole le avesse pronunciate alla Knesset, sarebbe stato interrotto sì, ma dai fischi dei deputati arabi, alcuni dei quali parlano come i leader di Hamas, dalle rimostranze dei rappresentanti dei coloni, furiosi per l’ammissione del premier che “alcuni insediamenti resteranno al di là dei confini di Israele”, dai mugugni dei partiti religiosi, per quella disponibilità “a soluzioni creative” su Gerusalemme, anche se offerta nel contesto della ferma determinazione a non dividere mai la città santa. Il contrasto tra le assise parlamentari dei due Paesi è balenato nella mente del premier israeliano, che rivolto ai deputati statunitensi ha detto loro: “Pensate, guys, di essere duri, gli uni verso gli altri, qui al Congresso? Venite per un giorno alla Knesset. Siete miei ospiti”.

L’accoglienza è stata calorosa e bipartisan ma non unanime. Il potente Presidente del Comitato per le Relazioni Estere, John Kerry, uno dei più vicini collaboratori del Presidente Obama, non solo non si è affatto spellato le mani, ma quando il premier ha rivendicato come vitale per Israele la permanenza dell’esercito lungo la valle del Giordano, è rimasto ostentatamente seduto mentre la gran parte dei suoi colleghi tributava all’oratore l’ennesima standing ovation.

Netanyahu ha ribadito il suo sì ad uno Stato palestinese demilitarizzato, si è detto pronto ad una offerta territoriale “generosa”, ha citato le parole di Obama a metà, per affermare che i confini tra Israele e il futuro Stato palestinese “non saranno quelli del 5 giugno 1967”, tacendo sul fatto che per il Presidente Usa quei confini dovrebbero essere la base per il negoziato. Ha infine lanciato il guanto di sfida al Presidente Mahmoud Abbas, chiedendogli di riconoscere lo Stato ebraico di Israele e di strappare l’accordo con Hamas.

Scontato il no dell’Autorità palestinese e quello, che arriverà nelle prossime ore, della Lega Araba. Il processo di pace non solo è defunto; è chiaro a tutti che non risorgerà dalle ceneri tanto presto. Il premier israeliano non ha voluto varcare alcun Rubicone, convinto com’è che lo status quo, per quanto non sia il migliore dei mondi possibili, è allo stato attuale più difendibile delle linee del ’67, cui ha fatto riferimento esplicito Obama, indicandolo base del negoziato. Qui risiede la divergenza di fondo tra Gerusalemme e Washington. Obama è andato nella “tana del lupo”, l’Aipac, per dire che “lo status quo non è più sostenibile”, alla luce dei cambiamenti in atto in Medio Oriente. Ha snocciolato una lista di rischi che Israele ha di fronte se non risolve il suo conflitto con i palestinesi. Ha aggiunto di essere consapevole che una parte degli 11mila delegati della lobby americana filo israeliana non la pensa allo stesso modo, implicitamente annoverando nella lista lo stesso Netanyahu.

Trascinando dalla sua parte il Congresso, Netanyahu si è mostrato uno dei leader più abili nell’oratoria. Ma rientrato in patria, lascia dietro di sé un Obama adirato come raramente è accaduto nella storia delle relazioni bilaterali e i cocci di un processo di pace che nessuno sembra più disposto a tentare di mettere insieme. Vero è che il Presidente usa si è pubblicamente impegnato a contrastare il tentativo dei palestinesi di isolare Israele alle Nazioni Unite, ma ha avuto da Netanyahu ben poche carte da spendere con gli alleati europei, che incontra in queste giorni. A settembre, quando i palestinesi porteranno prima all’Assemblea Nazioni Unite, dove c’è una maggioranza automatica, la richiesta di riconoscimento dello Stato palestinese entro i confini del ’67, la differenza tra una mezza vittoria e una sonora sconfitta per Israele la farà il voto di alcuni Stati europei chiave, primi fra tutti Francia e Germania.

E dopo settembre, arriverà ottobre. Isolamento? Razzi di Hamas? Attrito ai check point in Cisgiordania? Col Medio Oriente che corre verso l’ignoto, Israele ha scelto di restare fermo, dando la sensazione di aver temporaneamente rinunciato a influenzare il corso degli eventi. Per Netanyahu, gli applausi di ieri, una indiscutibile vittoria, che rischia però ben presto di rassomigliare a quella di Pirro.