Gli “attalisti” italiani sono solo un’invenzione

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Gli “attalisti” italiani sono solo un’invenzione

29 Gennaio 2008

Con la benedizione del
quotidiano di Via Solferino, ecco sbarcato nel nostro Paese immerso
nell’ennesima complicata e caotica crisi di governo il partito degli
«attalisti», in onore di Jacques Attali, ex-sherpa di François Mitterrand ed
oggi autore del rapporto «per liberare la crescita» commissionato dal
Presidente francese Nicolas Sarkozy. Come troppo spesso capita nel nostro
Paese, qualsiasi pseudo-novità proveniente dall’estero si tramuta ben presto in
tema di dibattito interno e finisce per essere declinata con le categorie
politiche nazionali. È successo così per la «Grande coalizione» alla tedesca,
negli ultimi due anni sulle bocche di tutti i protagonisti della politica
italiana come possibile soluzione di tutti i mali del nostro Paese, trascurando
naturalmente le specificità storico-politiche dell’alleanza tra Cdu-Spd.
Qualcosa di simile si è verificato quando Sarkozy ha scelto alcune personalità
di sinistra da inserire nel suo esecutivo. La sindrome del «risolviamo ogni
problema mescolando tutti i migliori» ha raggiunto ora un altro picco di fronte
alle 316 proposte che alla fine della scorsa settimana Attali ha presentato al Presidente.
Ma se ci si astrae dalle solite semplificazioni e si guarda alla situazione
senza le lenti deformanti del provincialismo nazionale si possono notare tre
importanti dati. Innanzitutto qualcosa di simile alla Commissione Attali ha ben
poche possibilità di essere ripetuto nel nostro Paese. In secondo luogo la
Commissione Attali non ha assolutamente nulla a che fare con le logiche
italiane di grande coalizione o governo istituzionale per le riforme così
ricorrenti nel dibattito politico italiano. Infine gli esiti della Commissione
e il suo rapporto finale sono ben lontani dal vedere un’applicazione
automatica, che comunque dovrà affrontare una complicata e lunga parabola
politica.

Per quanto riguarda il
primo punto, cioè la difficile realizzazione di una commissione di studio come
quella guidata da Jacques Attali in Italia, il dato veramente differente tra i
due Paesi riguarda il grado di consapevolezza di trovarsi in una congiuntura di
crisi che li separa. La scelta di chiedere uno studio articolato e una serie di
proposte concrete per «liberare la crescita» si inserisce in una più ampia
volontà di rottura e di inversione dello status quo mostrata da Sarkozy nel
momento in cui ha lanciato la sua candidatura per l’Eliseo. Il lavoro prodotto
da Attali e dai suoi 42 commissari non può essere disgiunto dalla convinzione
che si trova alla base del mandato che il Presidente ha ricevuto il 30 agosto
2007: la società francese, eccessivamente regolamentata, non è più in grado di
garantire al Paese la forza necessaria per affrontare le sfide della
mondializzazione. Da qui derivano un declino e una marginalizzazione
progressiva al contempo politica, economica e sociale. Il rapporto Camdessus
del 2004, per altro, non aveva offerto ricette molto differenti. La Francia, o
per lo meno una parte importante della sua classe politica, ha compreso
l’urgenza della situazione e cerca una via d’uscita. Il carattere globale e
complessivo della crisi è dimostrato dal numero di commissioni e rapporti
richiesti dal Presidente non appena salito all’Eliseo. La ricerca di
suggerimenti e proposte per avviare la riforma del Paese è stata fino ad oggi
impressionante. Il rapporto Védrine sulla mondializzazione e le relazioni
internazionali, quello Balladur-Lang sulle riforme istituzionali ai quali si devono
aggiungere quelli affidati a singoli ministri, Morin per la difesa e Amara per
le periferie. Dove sono i punti in comune con l’Italia?

Passiamo al secondo dato,
quello che ha fatto parlare della Commissione Attali come di un esempio di
clima consensuale e possibile nascita di un governo di unità nazionale.
Certamente Sarkozy nello scegliere Jacques Attali ha proseguito nel ruolo di
chi «fait bouger les lignes politiques» e sceglie a destra o a sinistra a
seconda delle capacità e delle attitudini professionali. Per quanto riguarda
poi la composizione della commissione, ci si è trovati di fronte ad una platea
di esperti, ai quali è stata affidato un compito politico, nei suoi obiettivi
finali, ma essenzialmente scientifico sul breve periodo. Il tutto deve essere
però inserito in un contesto istituzionale come quello francese, con un
esecutivo in grado di operare senza dover scontare continui ricatti dal
Parlamento e con un’Assemblea Nazionale dove la frammentazione non esiste e
nella quale i due partiti maggiori ottengono oltre i due terzi dei voti
espressi dai cittadini.

Veniamo al terzo ed
ultimo punto: il rapporto Attali è solo e soltanto una «cassetta degli
attrezzi», un insieme di possibili risposte per permettere alla Francia di
ripartire. Si va dalla liberalizzazione del sistema pensionistico, con la
possibilità di restare al lavoro fino a quando l’occupato desidera, anche dopo
aver superato i limiti d’età, a quella delle professioni liberali e delle
licenze dei taxi. Uno spazio di tutto rispetto hanno la scuola e l’università,
così come la liberalizzazione del settore della grande distribuzione e la
necessità di invertire il trend ascendente a livello di spesa pubblica. Il
carattere eterogeneo delle proposte, sulle quali Attali è stato chiaro «o saranno
applicate tutte, o non avrà alcuna utilità», apre il discorso alla cosiddetta
fase due della questione. Sarkozy ha dichiarato di essere d’accordo su 313
proposte su 316 totali. A questo punto subentra il dato eminentemente politico.
Come pensa di utilizzare il rapport?
Le raccomandazioni e le soluzioni proposte da Attali non sono del tutto nuove
(basti pensare che nel 1960 il rapporto Rueff-Armaud parlava già di
liberalizzazione dei taxi), nuovo deve essere il coraggio di attuarle.

Il dibattito che si è
acceso una volta presentato il piano mostra come al solito i socialisti in
posizione di retroguardia, sospesi tra l’accettazione di molte delle proposte
di Attali e la critica oramai superata che tende ad opporre «sociale a
liberale». Ma anche la posizione di Sarkozy non appare delle più semplici.
Alcune delle proposte più significative, basti pensare alla liberalizzazione di
settori dominati da rendite di posizione come quello notarile, hanno già
cominciato a provocare malumori proprio tra l’elettorato dell’Ump, voci da non
trascurare in vista del voto di metà marzo per le municipali. Copé e Raffarin
(Ump) non sono stati teneri con il rapporto e hanno ricordato che da destra non
arriveranno «assegni in bianco», quando le proposte dovranno tramutarsi in
leggi. L’ex ministro di area liberale Madelin ha poi ricordato polemicamente
quanto sia irreale parlare di crescita senza agire in maniera sostanziale per
diminuire la pressione fiscale. Un tema poi come quello dell’immigrazione
declinata nel rapporto come «veicolo fondamentale per la crescita» mal si
accosta alla politica delle quote lanciata dal Presidente e dal suo ministero
dell’Integrazione. Fatto infine da non trascurare il calo costante dei consensi
di Sarkozy frutto anche della logica penalizzante alla quale finisce per essere
sottoposto il politico moderno che cerca di attuare le necessarie riforme di
struttura. Il desiderio da parte dell’opinione pubblica di vedere immediati e
concreti risultati finisce per scontrarsi con i tempi lunghi necessari per
ottenere i primi successi: molte delle soluzioni avanzate dalla Commissione non
daranno di certo risultati immediati.

Il rapporto Attali non è
la ricetta riformatrice in grado di risolvere tutti i problemi francesi, per
poi passare le Alpi e risolvere quelli italiani, ma è in realtà una vera e
propria road map per cercare di
affrontare le principali mancanze di un Paese in reale declino. Ben lungi dal
poter essere considerato uno sforzo bipartisan sul modello «grande coalizione
all’italiana», esso è il frutto del lavoro di un’equipe qualificata di
specialisti (molti economisti, qualche ex-sindacalista, giornalisti
specializzati, professori universitari ma praticamente nessun politico in
attività) che nei loro suggerimenti non sono però mai passati dal desiderabile
al possibile. Questo compito spetta alla politica, ad un Presidente che ha
fortemente creduto nella necessità di proporre una via verso la crescita e le riforme,
ma che si trova ora di fronte alla necessità di muovere dalla teoria alla
pratica. Una situazione complessa, ma per nulla paragonabile al deserto di
macerie nel quale versa il nostro Paese. «Attalisti d’Italia», dunque, sembra
destinato a restare un bello slogan e nulla più.