Gli azionisti di Rep. sono incompatibili con la “democrazia dei moderni”
13 Febbraio 2011
Il fantasma azionista che continua ad aggirarsi per l’Italia – è quanto si deduce dall’articolo pubblicato da Ezio Mauro su ‘Repubblica’ dell’8 febbraio u.s. – per il Cavaliere, per i suoi pretoriani, per la sua corte, per i suoi ‘intellettuali’, sta diventando l’ombra di Banquo che rovina i banchetti e le orge di Villa San Martino. In un’Italia in cui gli ideali sono abitualmente messi alla berlina, e la delegittimazione diventa una cifra della politica attraverso un giornalismo compiacente di partito: una delegittimazione insieme politica, morale, estetica camuffata da goliardia quando serve, da avvertimento – nel vero senso della parola – quando è il caso; in un’Italia in cui si vantano, per dirla con Alberto Moravia, come qualità i difetti e le manchevolezze della nazione, non meraviglia che i Giuliano Ferrara manifestino l’ossessione permanente e ormai eterna della nuova destra nei confronti della cultura azionista.
In un crescendo di indignazione morale e di fervido patriottismo repubblicano, Mauro spiega le ragioni profonde dell’allarme suscitato dal ‘gramsciazionismo’ e delle invettive che, ancora una volta, vengono scagliate contro di esso, due volte colpevole, perché troppo severo a destra, nel suo antifascismo intransigente, troppo debole a sinistra, nei suoi rapporti con il comunismo. Ciò che, a suo avviso, si rimprovera sostanzialmente all’azionismo è di avvicinarsi alla politica, di arricchirla di valori e di ideali, di cercare il nesso tra politica e morale, di rivolgersi allo spirito pubblico, invitando alla prevalenza dell’interesse comune che si sta adattando al peggio per disinformazione, per convenienza o per pavidità.
Quando ritorna la cifra intellettuale dell’azionismo, che è il tono della democrazia classica, e si avverte che quell’impronta culturale forte, quasi materiale, non si è dissolta con la piccola e velleitaria organizzazione nel ’47, ecco l’allarme ideologico. Sarebbe fin troppo facile ironia ribaltare l’accusa di delegittimazione o far rilevare la ricomparsa di un copione, storiograficamente logoro ed estremamente superficiale sotto il profilo sociologico, in base al quale il nostro paese sarebbe condannato all’impari lotta tra le minoranze portatrici di ‘virtù civiche’ e di un elevato senso dello Stato e delle istituzioni, da un lato, e le masse apatiche, interessate,’qualunquistiche’, che chiedono solo di essere liberate dall’impaccio di regole e leggi, costituite da sudditi uguali nei vizi e portati a tacere perché hanno comunque qualcosa da nascondere, dall’altro.
Dell’Italia barbara, stando alle analisi di Mauro e degli articolisti replicanti di ‘Repubblica’, fu espressione, negli anni venti del secolo scorso, il fascismo, autobiografia della nazione, secondo l’infelice e sviante definizione di Piero Gobetti; nella seconda metà degli anni quaranta, il qualunquismo il movimento politico che riuscì per breve tempo a rastrellare i voti di quegli italiani per i quali la sola realtà che conta è la loro fattoria, i loro titoli di rendita, la vita comoda, le avite prebende,che alimentano quell’agnosticismo politico che un tempo si chiamò trasformismo, poi neutralismo, poi filofascismo (assai peggiore del fascismo) e che portano i segni della maledetta malattia: l’uomo del Guicciardini, che tira a campare; il solito Stenterello, servitore di dieci padroni (Piero Calamandrei); nei nostri giorni, il berlusconismo, insofferente dell’Italia di minoranza, intransigente, laica, insofferente al clericalismo cattolico e comunista, praticante della religione civile che predica una ‘democrazia di alto stile.
Per Mauro & C. studiosi come François Furet, Renzo De Felice, Augusto Del Noce, Gino Germani – per non parlare dei grandi storici d’oltralpe e d’oltreoceano è come se non fossero mai esistiti. Fascismo, qualunquismo, populismo sono tre aspetti della stessa palude morale e culturale in cui affonda quanto c’è di più nobile e disinteressato nella natura umana. Confutare una tesi del genere sarebbe tempo perso, sarebbe come leggere il Galateo di Monsignor Della Casa a due tifoserie che si stanno scannando, dopo la partita di calcio. D’altra parte, Barbara Spinelli, Adriano Prosperi, Nadia Urbinati, Stefano Rodotà e gli altri maîtres-à-penser del quotidiano romano non intendono far luce sul mondo o produrre conoscenza – che era il compito che nel bellissimo saggio di Bertand de Jouvenel, Il concetto di politica, lo Pseudo-Alcibiade riservava a Socrate, non a sé ma coltivare gli animi a un impegno morale e politico che aiuti a vincere lo scetticismo e il cinismo nazionale. Insomma non si muovono sul terreno dei giudizi di fatto ma su quello dei giudizi di valore e su tale terreno è difficile confutarli senza passare per berlusconiani, usi ad ascoltare l’elogio del malandrinoe a mettere gli ideali alla berlina.
Non sono un illuminista ‘alla francese’ e non credo nei poteri taumaturgici della ‘ragione’: quando si è colpiti dalle metastasi ideologiche ogni dialogo – con buona pace di uno dei miei più cari e indimenticabili maestri, Guido Calogero…un azionista! – è una perdita di tempo. Ciò vale, tuttavia, per gli attori politici ma non per gli spettatori – che, fuor di metafora – sono i lettori dei quotidiani. Su di loro avrà scarsa efficacia la ragion dogmatica – atea o religiosa che sia – ma potrebbe averne un po’ la ragione empiristica, quella che tenta di spiegare com’è fatto il mondo, rinunciando a chiedersi perché è fatto così. Senza erre maiuscola, essa diventa la ‘ragionevolezza’, figlia del buon senso, che s’inoltra nel mondo umano, munita di una mappa in cui sono distinti fiumi e valli, strade e rotaie, monti e colline. Il suo compito non è quello di sentenziare ma quello di capire e sa bene che comprendere è, innanzitutto, introdurre distinzioni – per genus proximum et differentiam specificam, come prescriveva il vecchio Aristotele.
A differenza di Ezio Mauro, credo che il Partito d’Azione, con le sue molte luci e le sue non meno numerose ombre, dopo la sua breve e intensa stagione durata non più di quattro anni, sia ormai da consegnare agli storici – che, peraltro, da Antonio Carioti a Giuseppe Bedeschi se ne sono occupati spesso ‘sine ira ac studio’ – e penso che neppure i vecchissimi reduci delle sue (spesso) generose battaglie possano rivendicarne, pleno jure, l’eredità ideale. Sono d’accordo con lui, invece, ma solo per quanto riguarda la constatazione del fatto, allorché scrive che l’idea azionista dev’essere davvero formidabile se ha attraversato sessant’anni di storia repubblicana diventando il bersaglio dell’intolleranza di tutte le destre che il Paese ha conosciuto, vecchie e nuove, mascherate e trionfanti, intellettuali e padronali: fino ad oggi, quando si conferma come il fantasma d’elezione, fisso e ossessivo, persino di questa variante tardo-berlusconiana normalmente occupata in faccende ben più impegnative, personali e urgenti.
Mettendo da parte l’incontinente passione ideologica, che si traduce in squalifica morale dell’avversario, Mauro ribadisce un fatto incontestabile: che c’è una ‘mentalità azionista’e che, comunque, la si voglia giudicare, essa rappresenta un basso continuo della political culture italiana e per ora non mostra alcuna intenzione di tirare le cuoia. Se il fatto è questo, lo storico e l’analista politico, rifuggendo sia dall’agiografia che dalla demonizzazione, debbono cercare di definire la natura dell’azionismo, nel modo più ‘neutrale’ possibile, in modo da far comprendere le ragioni dell’inestinguibil odio e dell’indomato amor, che motivano rispettivamente i detrattori e i nostalgici, nonché il protrarsi e il riaffiorare costante di polemiche e di scontri ideologici altrimenti incomprensibili.
La tesi che intendo sostenere è che alla base di un contenzioso ideologico che dura ormai da più di mezzo secolo, vi sia un diverso modo di porre il rapporto tra ‘etica’ e ‘politica’, che rinvia a visioni del mondo irriducibili, fondate su due diverse concezioni della democrazia liberale, l’una portata a risolvere l’aggettivo nel sostantivo, l’altra a mettere il sostantivo al servizio dell’aggettivo. Dietro il braccio di ferro, che regolarmente torna a dare spettacolo, tra azionisti e anti-azionisti non c’è solo un’anomalia italiana ma una problematica complessa che investe questioni come il rapporto tra politica e morale, il ruolo delle elite, le generazioni dei diritti, la funzione degli intellettuali etc.
Per quanto riguarda il primo – il rapporto tra etica e politica – sarà meglio sgomberare il campo da un equivoco e da un fraintendimento diffusi – e spesso ad arte. Diciamo subito che nessuna comunità politica può fare a meno di ‘valori condivisi’ che ne qualificano e definiscono l’etica. Tale etica rappresenta, per così dire, il momento dell’universale’, quell’insieme di principi che trovano tutti concordi, indipendentemente dai dissensi che potranno sorgere tra i vari progetti politici concreti elaborati dai vari partiti al fine di ‘far stare meglio’ i cittadini.
Che nella ‘società aperta’ il rappresentante del popolo debba essere leale nei confronti dei suoi elettori, che debba impegnarsi nel realizzare i programmi per i quali ha chiesto il loro voto, che debba dar prova di onestà personale – ovvero di saper resistere alla tentazione di usare a fini privati o familistico – amorali le sue risorse di potere – rientra in una dimensione morale della politica, sulla quale non si vede come non si possa essere, almeno in teoria, tutti d’accordo, a destra, al centro, a sinistra. (il fatto che poi si predichi bene e si razzoli male non è molto rilevante e, inoltre, non introduce criteri che consentano di discriminare tra conservatori e progressisti..).
Si può anche concedere che la ‘etica azionista’ sia, da sempre, più impegnata, rispetto ad altre famiglie ideologiche, nell’enfatizzare la dignità e la correttezza che si esigono dai rappresentanti del popolo ma certo non è questa intransigenza a suscitare tante radicate avversioni. Chi ha mai teorizzato che i rappresentanti del popolo o gli esponenti delle istituzioni debbono prescindere, nel loro agire, dalla morale comune, ingannare i loro seguaci, arricchirsi in maniera illecita, circondarsi di cortigiani e cortigiane ben compensati (col denaro dei contribuenti, s’intende)? Sarebbe difficile trovare, a destra o a sinistra, un sostanziale disaccordo sulla ‘professione’ – il Beruf – svolta dal politico e consegnata da Max Weber a una delle sue pagine più ispirate: La politica consiste in un lento e tenace superamento di dure difficoltà, da compiersi con passione e discernimento al tempo stesso.
E’ perfettamente esatto e confermato da tutta l’esperienza storica, che il possibile non verrebbe mai raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile. Ma colui il quale può accingersi a quest’impresa dev’essere un capo, non solo, ma anche – in un senso molto sobrio della parola – un eroe. E anche chi non sia né l’uno né l’altro, deve foggiarsi quel temperamento d’animo da poter reggere anche al crollo di tutte le speranze, e fin da ora altrimenti non sarà nemmeno in grado di portare a compimento quel poco che oggi è possibile.
Solo chi è sicuro di non venir meno anche se il mondo, considerato dal suo punto di vista, è troppo stupido e volgare per ciò che egli vuol offrirgli, e di poter ancora dire di fronte a tutto ciò:’non importa, continuiamo!’, solo un uomo siffatto ha la vocazione per la politica.. Con diverso pathos non v’è chi non sia d’accordo, tra le famiglie ideologiche in competizione. Lasciandosi alle spalle il terreno delle polemiche esacerbate e strumentali, quel che, in realtà, i suoi critici rifiutano dell’azionismo non è la tensione morale, nel suo rapporto complesso e sofferto con l’agire politico, ma il suo tratto, oggettivamente illiberale – non antidemocratico, se per democrazia s’intende la filosofia politica di pensatori, tanto diversi, come Jean-Jacques Rousseau e Giuseppe Mazzini – che può sintetizzarsi nell’eticizzazione della politica, ben diversa dalla pur legittima pretesa che i politici siano ‘onesti’. L’eticizzazione della politica è un modo di vivere il rapporto etica/politica che fa della politica il braccio secolare dell’etica e connette l’etica a una visione laica del mondo e della storia in cui non c’è spazio per l’uomo qualunque, per chi non voglia collaborare alla costruzione di una societas umana decisa a liberarsi delle sue antiche tare. Ne derivano tre conseguenze:
La prima conseguenza è la trasposizione in politica della divisione degli uomini in onesti e disonesti su cui, in definitiva, si fonda il discorso morale classico, inteso come riflessione sui criteri che permettono di distinguere i comportamenti conformi a ciò che esige il Dovere – e pertanto caratterizzati formalmente dal disinteresse e dalla disponibilità al sacrificio – dagli altri dettati dall’egoismo e dal perseguimento del proprio ‘particulare’.
La mentalità azionista elimina il luogo comune per cui di buoni e di cattivi ce ne sono in tutti i partiti: i buoni, ormai, stanno tutti da una parte – l’antifascismo, la laicità, la scienza etc. – e i cattivi si concentrano tutti nel campo di Agramante – dove allignano la dittatura, la superstizione religiosa, l’odio per la libertà, il razzismo etc.
Con questa semplificazione, essa rimane decisamente, che ne sia consapevole o meno, al di qua della rivoluzione copernicana prodotta dal ‘pensiero moderno’ – dai libertini francesi, passando per Bernard de Mandeville, agli economisti scozzesi – che pone tutti gli interessi e valori sullo stesso piano e fa del processo politico il terreno neutrale di un confronto in cui il vincitore prevale in forza del ‘numero’(su cui non possono esserci ‘conflitti di interpretazioni’), non per la sua intrinseca ‘virtù’(sulla cui natura e definizione possono darsi i pareri più diversi).
Il Medio Evo aveva eticizzato la politica nel senso che aveva visto nella guida del gregge umano affidato ai boni vires l’ideale dell’ottimo governo; l’illuminismo aveva sostituito ai ‘boni vires’ les ‘honnêtes gens’; il giacobinismo aveva sostituito alle ‘honnêtes gens’ i ‘citoyens’ ‘virtuosi, i patrioti. In tutti e tre i casi, i ‘reprobi’ rimanevano fuori della ‘polis’ e alla teologia, prima, alla filosofia dopo, si assegnava il compito di identificare gli eletti distinguendoli dai reprobi.
L’avvento della secolarizzazione rappresenta la conditio sine qua non della democrazia liberale : se interessi e valori non stanno, politicamente e moralmente, sullo stesso piano, giacché ce ne sono di nobili e di volgari, che senso ha contare le teste? Non dovrebbero prevalere le opinioni di chi sa più degli altri ed è più responsabile degli altri verso la comunità? La mentalità azionista, a ben guardare, non ha mai messo in discussione tale paradigma mentale: ci sono misure legislative che onorano chi le propone e ci sono richieste rivolte ai governi che rivelano soltanto la miseria morale e intellettuale di un paese ‘arretrato’.
Per fare un esempio significativo, chi vuole pagare meno tasse – ovviamente non si parla dell’evasore che commette un reato punibile per ogni pars politica – si colloca a un livello di citizenship inferiore a quello di chi vorrebbe elevare le aliquote fiscali in vista di un Welfare State sempre più esteso e capillare. In una società in cui il ‘sacro’ si è ritirato dal processo legislativo – sarebbe persino superfluo precisarlo se non fossimo in Italia – la scelta tra più tasse o meno tasse non rinvia ad alcun risvolto etico forte: certamente si è tutti d’accordo che la gente dovrebbe vivere meglio – ‘simpatia’ e solidarietà fanno parte del bagaglio cristiano di ciascun cittadino e, quindi, sono sentimenti morali autentici e partecipati – ma la decisione relativa alle aliquote da alzare o da abbassare non è etica ma politica e, in quanto tale, viene commisurata ai risultati ottenuti: la diminuzione degli oneri fiscali produce o no più ricchezza? (Di fatto è quello che accadde in America nell’era Reagan e in Inghilterra nell’era Thatcher ma, in altri contesti, potrebbe accadere il contrario).
Nella mentalità azionista sono le ’intenzionalità’, le disposizioni della mente e del cuore dei cittadini, a ‘fare la differenza’e poiché i’buoni’ – ovvero quelli che si ritengono tali – sono molto meno numerosi dei ‘cattivi’, ne deriva un’attitudine elitaria ed aristocratica che rende motivo d’orgoglio l’appartenenza all’Italia di minoranza o all’Italia della ragione. Pochi ma buoni, come gli alpini di Napoli! Non si è riflettuto abbastanza, a mio parere, sul nesso tra quella che potrebbe definirsi la politicizzazione di quella divisione degli uomini in onesti e disonesti, su cui si esercita il ragionamento morale, e l’insorgere di atteggiamenti elitistici e di autocandidature alla guida della comunità, sia pure soltanto come maîtres-à-penser.
Chi divide i suoi simili in mele sane e in mele marce è difficile—a meno che non si tratti di un Oscar Wilde o di un Woody Allen – che collochi se stesso tra le seconde ed è altrettanto difficile che ritenga le prime maggioritarie, giacché, se così fosse, non avrebbe più senso la cultura del piagnisteo.
(Fine prima puntata, continua…)