Gli iracheni di ogni etnia parlano di progresso, non di guerra civile
29 Settembre 2007
di Fouad Ajami
“Abbiamo liberato la provincia di Anbar, abbiamo sconfitto Al Qaeda negando ai suoi appartenenti il pretesto religioso”, affermava lo sceicco Abdul Sattar Abu Reisha con leggero orgoglio ed impazienza. Era un raffinato leader tribale distintosi nel corso dei nuovi accordi sunniti con il potere americano, ed è stato assassinato da Al Qaeda la scorsa settimana. Non ero pronto ad affrontare la sua giovane età (è nato nel 1971), né la sua ambizione. Sir David Lean, il leggendario regista di “Lawrence d’Arabia”, avrebbe molto apprezzato quest’uomo. Abu Reisha aveva stile, e ne era consapevole: il suo abaya marrone era bordato d’oro, portava un dishdasha candido, ed un copricapo in tinta. “Al loro arrivo, i nostri amici americani non ci comprendevano, erano un popolo orgoglioso e testardo – così come lo siamo noi. Collaboravano con gli opportunisti; mentre ora si rivolgono alle tribù, così come è giusto che sia. Le tribù odiano le fazioni religiose e gli impostori religiosi”.
Eravamo a Baghdad, e lo sceicco mi narrava la sua versione dei fatti. Era insieme ingenuo ed evasivo mentre raccontava. Al Qaeda e i suoi jihadisti islamici avevano trovato rifugio ed appoggio nell’Anbar; avevano reclutato gli “elementi criminali” e “le mele marce”; avevano portato in Iraq fanatismo e bigotteria, fino ad allora sconosciuti. Inizialmente benvenuti, cominciarono ad imporre la propria tirannia. Dichiararono harem (non permesso) lo stile di vita sociale normalmente adottato. Vietarono le sigarette, sposarono le figlie di famiglie perbene senza il consenso dei loro genitori. Violarono il codice più fondamentale della società civile “versando il sangue dei viaggiatori in abituale passaggio”. Coloro che conducevano la preghiera nelle moschee vennero minacciati, poi uccisi.
Abu Reisha, insieme ad un piccolo gruppo di uomini che la pensavano come lui, si fecero avanti per combattere Al Qaeda. “Lottavamo con le nostre armi. Io combattevo Al Qaeda con i miei mezzi. Gli americani furono lenti a capire il nostro sahwa, il nostro risveglio. Ma recentemente sono cambiati. Gli americani non hanno colpa: non conoscono l’Iraq. Ma tutto questo ora è nel passato, ed ora l’America ha un generale abile e capace, e la gente dell’Anbar ha trovato la propria strada. Nell’Anbar, ora sanno che la minaccia viene dall’Iran, non dagli americani.
Abu Reisha parlava della scaltrezza degli iraniani: affermava che hanno progetti per le città sante di Najaf e Karbala. Diceva che in Anbar c’era bisogno di investimenti, che le infrastrutture della regione erano a pezzi. La concessione governativa di 70 milioni di dollari alla provincia di Anbar era stata accolta con soddisfazione, ed era certo che altro denaro stesse per arrivare.
Un iracheno bene informato, meno sentimentale riguardo ai recenti avvenimenti nel proprio paese, ha cercato di minimizzare il culto di Abu Reisha. I soldati americani, ha sostenuto, hanno vinto una guerra che era dell’Anbar; ma sarebbe stato meglio mettere alla vittoria una kafiyyah irachena, piuttosto che un elmetto statunitense. Ha ridimensionato l’importanza di Abu Reisha: è stato utile, ha ammesso, ma non deve essere idealizzato. “Non ho dubbi che qualche tempo fa anche lui sparasse agli americani; poi il vento è cambiato, ed Abu Reisha ha saputo trovare un accordo con il vero ordine di potere. La verità è che i sunniti hanno cominciato questa guerra quattro anni fa, e sono stati sconfitti. Le tribù non vincono mai le guerre, si uniscono soltanto ai vincitori.
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Quattro mesi fa, ebbi modo di osservare la desolazione dei sunniti, il loro riconoscere la tragedia che li aveva colpiti a Baghdad. Questa desolazione si era acuita nel periodo dell’intervento statunitense. Nessuna cavalleria araba era giunta in loro soccorso, nessun corpo scelto era arrivato dalla penisola araba né dalla Giordania, e l’Egitto era lontano. In Iraq, la realtà non stava ad aspettare gli arabi. I sunniti iracheni hanno dovuto imparare ad accettare di essere rimasti soli. Avevano scommesso sulla dittatura e sul Baath, ed ora entrambe sono stati spazzati via; c’è stata ovviamente anche la breve fiducia concessa ad Al Qaeda e sui regimi arabi, ma anch’essa non ha dato frutti.
L’unico esponente politico con sufficiente autorità e con una posizione nell’ordine costituito che ha il potere necessario ad allontanare i sunniti dal precipizio è il vicepresidente Tariq Hashemi. C’è un gioco di pedine nella Green Zone, così come a Washington, che si concentra su Hashemi: si trova all’interno del cerchio di potere, ed allo stesso tempo ne è fuori; è parte dell’autorità, ma è comunque un uomo all’opposizione nel nuovo ordine. È a capo del Partito Islamico, ed è un ex-colonnello delle Forze Armate. Fa promesse di appoggio al governo, poi le ritira. La sua cautela è comprensibile: tre dei suoi fratelli sono stati fatti sparire dal terrore. È un uomo di grande lustro, dall’inglese impeccabile. C’è un che di aristocratico nella sua condotta.
Non definirebbe il governo ‘settario’. “Sono un uomo di questo governo”, mi disse quando lo contattai telefonicamente nella sua villa, elegante quanto lui. Metteva in dubbio le “prestazioni” del governo, le sue capacità. Ne sottolineava l’isolamento nella regione a dimostrazione dell’incapacità dell’esecutivo di esercitare le sue funzioni. “Non contesto il diritto del governo a guidare il paese. So di rappresentare la minoranza in Parlamento, mentre loro hanno la maggioranza nella nostra legislatura. Ma le competenze sono un’altra cosa. Un governo più abile raggiungerebbe un accordo con
L’ora è tarda per gli arabi sunniti, e l’età della loro supremazia è passata. Hashemi è un realista, e conosce il mondo. I sunniti a Baghdad hanno bisogno di lui, se non altro perché la loro crisi si estende più in profondità dei circoli dell’Anbar.
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Un fantasma da lungo tempo ricorrente è quello di aver abbandonato l’Iraq ai persiani. Di notevole importanza storica è il relativo quesito ora sollevato dagli iracheni: gli arabi sciiti saranno in grado di governare, oppure nascono all’opposizione e ad essa appartengono? L’uomo al centro di questa grande disputa, Nouri al-Maliki – considerando l’infinita tempesta che gli infuria intorno e le previsioni continue di un suo abbandono del potere – rimane un uomo senza fretta. È composto e risoluto. I lunghi anni in esilio certamente hanno plasmato la sua pazienza. Ha atteso per lungo tempo la liberazione del suo popolo; gli anni in esilio in Siria devono essere stati tremendi per lui. Il Partito Daawa è stato la quintessenza del movimento di liberazione clandestino, ha sofferto pesanti perdite e annovera tra i suoi ranghi numerosi ‘martiri’. Gli uomini di Maliki sono rassegnati all’isolamento nella costellazione dei poteri arabi. Sono stati forgiati da una storia di vittorie mancate. Maliki non è “l’uomo degli americani in Iraq”. Non è stato parte dei gruppi di opposizione finanziati dagli americani alla vigilia della guerra di liberazione. È un uomo che viene dal cuore della patria sciita, e i suoi compagni politici sciiti vengono da Baghdad, sono a loro agio con le lingue e i modi occidentali. È un uomo appartenente alla sua cultura fino al midollo, con il suo arabo forbito e melodico. Affronta un passo alla volta le proposte che gli vengono illustrate dagli esperti e legislatori statunitensi. È profondamente consapevole del debito che il suo paese – o per essere più precisi, la sua comunità – nutre verso gli americani.
“Noi e i nostri amici americani possiamo divergere nelle tattiche, potremmo non avere lo stesso approccio a tutte le questioni. Ma il messaggio che personalmente invio loro trabocca di gratitudine e di apprezzamento”, ha affermato. “Agli americani dico, avete liberato un popolo, lo avete fatto entrare nella modernità. Vivevano nella paura, ed ora hanno la libertà. Gli iracheni non avevano accesso al mondo moderno; ma grazie all’intervento statunitense, ora apparteniamo alla realtà che ci circonda. Venivamo decimati e uccisi come le cavallette durante le infinite guerre di Saddam, ma ora vediamo la luce. Un insegnante lavorava per 2 dollari al mese, ora gli stipendi permettono di vivere, ed in alcuni settori dell’economia siamo persino a corto di manodopera”.
Nonostante Maliki sia giunto al potere in Parlamento con l’appoggio del gruppo di deputati fedeli a Moqtada al-Sadr, ha approvato tutte le grandi operazioni contro l’esercito Mahdi. È in bilico sulla linea sottile tra i militari statunitensi e le autorità civili da un lato, e la vasta coalizione sciita che lo sostiene dall’altro. Ha un atteggiamento stoico riguardo all’inadeguato gabinetto che presiede, i cui membri sono stati imposti dagli stessi partiti politici che hanno scelto i ministri. Tre gruppi di ministri avevano revocato la loro partecipazione ai lavori del governo; Maliki rispose che non si sarebbe fatto ricattare, che aveva già una lista di tecnici di alto profilo che sarebbero stati disponibili a fare parte di un nuovo gabinetto. Avrebbe tenuto duro.
“Non credo ci sia una soluzione militare al nostro conflitto; dobbiamo riabilitare gli elementi dannosi. Non vogliamo arrestare i baathisti solo perché sono baathisti, e lo stesso deve valere per gli appartenenti all’esercito Mahdi”, ha affermato Maliki.
Non ha ammesso di aver favorito i nomi facoltosi dell’Anbar, ma mi è stato riferito che il suo governo ha concesso fondi consistenti ai leader tribali della regione: si è recato di persona dagli sceicchi dell’Anbar con somme rilevanti. Tuttavia, guarda con occhio scettico alla possibilità di armare “volontari” sunniti. Teme questa opzione, dicendo che sarebbe un fallimento: “Sarebbe come saltare dalla padella nella brace”. La riconciliazione nazionale – la spada di Damocle sospesa sulla sua testa dalle maldicenze di alcuni americani – non è semplice da ottenere, in un paese “senza una storia di dialogo e di scambio. Potrebbero volerci due o tre anni. Dateci tempo, e sarete orgogliosi di quanto avete aiutato a realizzare qui”.
L’annoso dilemma di questa terra è davanti agli occhi di tutti: “Per i curdi, è l’ora di ricevere; per gli sciiti, è l’ora di restituire; e per i sunniti, è tempo di perdere. Ma il paese è uno solo, e si deve condividere”.
Maliki rifiuta l’accusa di far parte di un’amministrazione settaria; nota con soddisfazione che il generale David Petraeus ha prosciolto il governo iracheno da una simile imputazione. L’esercito Mahdi ha vinto la guerra a Baghdad. Questo è il paradossale e vantaggioso risultato, quando si rendono le milizie superflue e improduttive: il governo è ora relativamente libero dai sadristi.
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“Storicamente, questa è una vittoria”. Queste le parole del vicepresidente Adel Abdul Mahdi, rampollo dell’aristocrazia sciita di Baghdad che parla correntemente inglese e francese. Mahdi è un uomo la cui odissea personale va dal marxismo al Baath, ed infine all’islamismo del Consiglio Islamico Supremo. “Veniamo da sotto le ceneri; ed ora il nuovo ordine, il nuovo Iraq, sta prendendo forma. Se stessimo perdendo, perché i ribelli si unirebbero a noi?”. Riservava unicamente lodi agli sforzi per difendere la pace a Baghdad: “Petraeus può difendere la surge”, diceva, “può dimostrare che le ‘zone rosse’ di conflitto sono in diminuzione e lasciano il posto alle ‘zone blu’ della pace. Sei mesi fa, non si poteva entrare nell’Anbar; ora le strade sono tranquille. Nel paese esiste un problema con i sunniti, che richiede l’iniziativa sciita. Il problema sunnita riguarda il potere, semplicemente. La società sunnita ha sviluppato una dipendenza dal potere, non ne può fare a meno, e ora si trova a dover modificare dolorosamente questo suo carattere”.
Mahdi non offre da parte del suo popolo giustificazioni in forma apologetica per il sangue e i sacrifici statunitensi in Iraq: “Poco più di due decenni orsono, dopo la rivoluzione iraniana e la guerra in Libano del 1982, gli USA in Medio Oriente erano esposti a seri pericoli. Guardatevi intorno oggi: tutti cercano la protezione e l’appoggio degli americani. La differenza l’ha fatta l’Iraq. Forse gli Stati Uniti sono stati particolarmente impulsivi rispetto al corso degli eventi; ma una volta messo alle spalle l’ottimismo iniziale, la vittoria della guerra è stata americana. Tutti in queste zone stanno celebrando l’America, persino
Negli stati nella regione governati dai sunniti, Mahdi ha lavorato per promuovere l’accettazione del nuovo Iraq. Guarda al suo paese, così come alla sua città, con orgoglio. È stato capace di andare oltre ai dolori quotidiani di Baghdad. “Baghdad è il cuore del mondo arabo, la culla della filosofia araba, della scienza e della letteratura”.
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