Gli Oscar e l’ideologizzazione totale della cultura pop occidentale

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Gli Oscar e l’ideologizzazione totale della cultura pop occidentale

01 Marzo 2019

La cerimonia dei premi Oscar 2019 ne è stata l’ennesima, plastica rappresentazione: viviamo un’epoca in cui la cultura è completamente dominata e schiacciata dall’ideologia.

Altro che “morte delle ideologie”! Nemmeno nei plumbei anni Settanta – gli anni della politicizzazione totale, del famigerato “messaggio”, del “portare avanti un certo discorso” come litania onnipresente sulla bocca di artisti e intellettuali – la cultura accademica e quella diffusa, l’intrattenimento di massa e lo spettacolo sono stati così ideologizzati, e così a senso unico nelle società occidentali.

Praticamente oggi se un film, un romanzo, una serie televisiva, una canzonetta – ma molto spesso anche una ricerca nel campo delle scienze umane e un prodotto di saggistica – vogliono sperare di essere finanziati, prodotti, promossi, premiati dall’establishment culturale e mediatico non possono assolutamente evitare di farsi portatori di un “messaggio” politico, o almeno di prestarsi alla strumentalizzazione nel senso dell’ideologia oggi sostenuta compattamente da quell’establishment. Il giudizio artistico o quello sul valore intellettuale degli autori è diventato un dato del tutto insignificante: contano soltanto il contenuto “pedagogico”, l’uso propagandistico, il grado di adatamento a fare del prodotto culturale una sfida lanciata a determinati “nemici della civiltà” veri, stereotipati o fittizi.

Negli anni Settanta l’ideologia “obbligatoria” per gli artisti che “piacevano alla gente che piace” era il sovversivismo antiborghese anarcoide post-sessantottino. Oggi il messaggio assillante che fa premio su qualsiasi valore artistico nella cultura di massa e pop è invece ovunque quello dell'”utopia diversitaria”, del relativismo integrale, dell’eliminazione di ogni discriminazione e differenza in nome dell’ideale di un’umanità “neutra”, liberata da ogni condizionamento.

Un’utopia imposta da una propaganda martellante e onnipresente, monopolizzata dalle grandi multinazionali mediatiche digitali, e che continuamente celebra il multiculturalismo, la “fluidità” di genere, l’onnipotenza del desiderio, e cerca di abbattere ogni residuo dell’identità culturale occidentale. Dai festival cinematografici a quelli televisivi e musicali (non solo il nostro provinciale Sanremo, ma gli MTV Awards, i Grammy e simili), così come nelle sale cinematografiche, nelle piattaforme di condivisione come Netflix o Spotify, il ritornello è sempre lo stesso, la mimica dell'”impegnato” del XXI secolo è stucchevolmente onnipresente, i nemici sono sempre gli stessi spauracchi: il razzismo visto dovunque, l’omofobia, il sessimo, e ogni appartenenza forte e tradizione nazionale, ossessione negativa del nuovo progressismo culturalista, iperglobalista e “liquido”.

Se un artista non aderisce a questa filastrocca obbligatoria, se rifiuta di farsi usare e banalizzare, se guarda “soltanto” ad un ideale estetico, la sua condanna e la sua emarginazione sono segnate.

Ma tra il contesto dell’arte di massa “impegnata” degli anni Settanta e quello del pop globale “politically correct” degli anni Dieci esiste anche una importante diferenza. Mentre a quel tempo la grande ondata della rivolta giovanile e movimentista segnava l’ascesa di una nuova generazione e di una nuova classe dominante (la “borghesia della conoscenza” internazionalizzata dei baby boomers) e travolgeva le gerarchie tradizionali, oggi assistiamo ad un fenomeno sostanzialmente inverso: gli eredi di quella classe dominante – ora saldamente dislocati nei posti di comando delle corporations hi tech, delle istituzioni internazionali, delle università e delle scuole, dei grandi media globalizzati – detengono una spaventosa concentrazione di potere sulla comunicazione, ma appaiono sempre più isolati dal sentimento comune prevalente nelle società da cui provengono. I loro continui “messaggi” e appelli all’impegno, le loro catechizzazioni rivolte sincronicamente a miliardi di spettatori e utenti dei media digitali e social, hanno una risonanza immediata e univocamente pervasiva, ma al tempo stesso sembrano vivere in una bolla, risuonare di un’eco reciproca sempre più autoreferenziale.

Basta uscire dal frastuono del canale unico dell’establishment globalista, basta andare nei luoghi in cui concretamente, anche se con minore visibilità, si fa cultura e spettacolo, musica e cimena, poesia e letteratura e filosofia, per accorgersi che quel frastuono assordante ha un impatto tanto stordente quanto in ultima analisi superficiale ormai su larga parte di società del tutto scettiche, disincantate nei confronti della smania educativa che viene dall’alto dei loro luoghi di potere. La nuova cultura “underground”, “alternativa”, e quindi più provocante e avvincente, viene prodotta fuori dal grande business mediatico/culturale/formativo gestito da élites sempre meno credibili, sempre più pericolanti, sempre più chiuse e ripiegate su se stesse. E’ quella che perpetua, modernizza e trasmette il patrimonio identitario dei popoli d’Occidente, le loro tradizioni, le loro autentiche, non artificiali, interazioni, così come le loro paure e il loro smarrimento nei confronti di un mondo sempre più anonimo, omologato, inaridito dalla divorante ossessione relativistica delle sue oligarchie.