Gli statali fanno la voce grossa, ma Brunetta si tappi le orecchie
21 Luglio 2008
Quest’anno è arrivato con un certo anticipo. L’autunno caldo del pubblico impiego che accompagna ormai da anni la stagione della vendemmia e delle castagne, quest’anno è iniziato gia a metà luglio. Complice il provvedimento del Governo che introduce alcune disposizioni di limitazione della spesa per “redditi da lavoro dipendente” (come si chiana in gergo le spese per le retribuzioni del personale pubblico). Due sono le pietre dello scandalo che hanno fatto esplodere la polemica in questo caldo fine settimana estivo.
La prima è la supposta decurtazione di 400 milioni dello stanziamento che dovrà servire a finanziare il prossimo rinnovo contrattuale del biennio 2008 – 2009. In questo caso si tratta di una polemica pretestuosa. In realtà, il fondo appostato dal Governo nel decreto di anticipo della prossima manovra finanziaria all’esame del Parlamento non riguarda unicamente le spese per il prossimo rinnovo contrattuale. E quindi non è possibile sapere se il taglio riguardi o meno tale voce di spesa. In ogni caso è noto a tutti che, ai sensi dell’attuale legislazione, solo la legge finanziaria potrà appostare le risorse per tali rinnovi contrattuali. In realtà, dietro le proteste sindacali si nasconde la speranza di rimettere in discussione la scelta del Governo che ha deciso di ancorare la percentuale di aumento dei prossimi contratti nazionali al tasso di inflazione programmata per il 2008 e 2009 (1,7% – 1,5%). Si tratta di una scelta del tutto in linea con lo schema dell’accordo Ciampi, ove si consideri che gran parte dello scostamento fra l’inflazione programmata e quella effettiva dell’ultimo anno deriva dall’andamento del prezzo di materie prime importate e come tale non rientra nel meccanismo di recupero previsto dal medesimo accordo. E ove si consideri che negli ultimi sei anni l’andamento delle retribuzioni del settore pubblico è stato quasi doppio rispetto all’andamento dell’inflazione (dati ARAN – ISTAT). E’ allora, anziché porre apertamente e chiaramente le proprie rivendicazioni (così creando semmai problemi ai colleghi sindacalisti dell’industria e dei servizi), il sindacato come già avvenuto negli anni scorsi (basti pensare alla kafkiana vicenda dei protocolli Nicolais – Padoa Schioppa) solleva un gran polverone sui metodi e sulle procedure sperando alla fine di spuntare qualcosa.
La seconda colpa del Governo sarebbe una sforbiciatina ad alcune leggi che negli anni scorsi hanno riconosciuto benefici aggiuntivi ad alcune categorie di pubblici dipendenti, attraverso la cosiddetta contrattazione integrativa. Ma anche in tal caso la reazione sindacale appare fuori luogo. Sia perché l’ammontare dei tagli è modesto ed inciderà poco sugli aumenti riconosciuti dai contratti integrativi (la gran parte dei quali prevede benefici che attraverso le c.d. progressioni di carriera vanno a far parte del trattamento fisso del dipendente). Sia perché si tratta di un intervento su un settore – la contrattazione integrativa – che rappresenta il vero punto dolente del pubblico impiego. I dati sono chiari, mentre gli aumenti riconosciuti dai contratti nazionali sono il linea con quelli del settore industriale, è attraverso la contrattazione integrativa che il pubblico impiego spunta percentuali di aumento quasi doppie rispetto a quelle del privato. Il che è paradossale ove si considera che in teoria la contrattazione integrativa dovrebbe servire a remunerare al livello aziendale o territoriale gli aumenti di produttività concretamente misurabili. Ora anche se le migliori menti (giuristi, economisti, scienziati dell’organizzazione) si sono cimentate nell’impresa, fino ad oggi nessuno è riuscito a costruire un metodo affidabile e maneggiabile per misurare la produttività delle organizzazioni pubbliche. Ciononostante la contrattazione di secondo livello (che dovrebbe premiare gli incrementi di produttività) copre non oltre il 30% dei lavoratori privati (con percentuali medie di aumento piuttosto modeste) ed il 100% di quelli pubblici (con percentuali di aumento che di fatto raggiungono i livelli di incremento riconosciuti dal contratto nazionale).
La vicenda è illuminante. La contrattazione integrativa, un’innovazione delle relazioni industriali positiva perché finalizzata a legare andamento di salari e produttività, applicata al pubblico impiego si trasforma nel suo opposto. Uno strumento subdolo utile solo per riconoscere aumenti salariali a pioggia, in modo non troppo visibile e sganciato da ogni riferimento alla produttività. Ma purtroppo i responsabili dello Stato, e degli altri enti pubblici, scontano un’irrimediabile debolezza in quanto datori di lavoro. Interessati al consenso politico e non al conto economico della propria azienda, non hanno gli incentivi sufficienti per resistere alla pressione sindacale quanto i datori di lavoro privati. Il Ministro Brunetta sinora ha dimostrato una forte determinazione verso il cambiamento.
Le campagne stampa lanciate sono senz’altro utili a creare nell’opinione pubblica una maggiore consapevolezza, così elevando la capacità di resistenza della politica nei confronti dell’abbraccio mortale con il sindacato del pubblico impiego. Ma non bastano le campagne di stampa. Se non si interviene rapidamente sui meccanismi che governano tale settore, ben presto anche il volenteroso Ministro Brunetta sarà risucchiato nelle sabbie mobili dell’avanguardia proletaria del XXI secolo: il sindacato del pubblico impiego.