Gli Usa, l’11 Settembre e le ragioni della guerra in Afghanistan

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Gli Usa, l’11 Settembre e le ragioni della guerra in Afghanistan

Gli Usa, l’11 Settembre e le ragioni della guerra in Afghanistan

14 Settembre 2009

Le ragioni che hanno portato agli attentati dell’11 Settembre non hanno mai davvero interessato il Presidente Barack Obama. Eppure egli è tornato a quei fatti quando ha cercato di spiegare, e difendere, la guerra in Afghanistan durante un discorso tenuto ai “Veterani delle Guerre Straniere” a Phoenix, in Arizona, il 17 agosto scorso. “L’insorgenza in Afghanistan non ha luogo solamente di notte, e non la sconfiggeremo facilmente mentre imperversano le tenebre, ma non dobbiamo mai dimenticare che questa non è una guerra che abbiamo voluto. E’ una guerra necessaria. Quelli che attaccarono gli Stati Uniti l’11 Settembre stanno complottando di nuovo. Se lasciata incontrastata, l’insorgenza talebana si trasformerà in un rifugio ancora più largo e sicuro da cui al Qaeda potrà organizzarsi per uccidere altri americani”.

Questa distinzione tra una guerra voluta (l’Iraq) e una guerra necessaria (l’Afghanistan) è divenuta canonica nel mondo liberale americano. Ma sarebbe più opportuno che facessimo a meno di essa, poiché è moralmente falsa e intellettualmente confusa. Nessuna filosofia riguardo a una guerra giusta o ingiusta potrà mai supportarla. L’idea dell’Afghanistan come “guerra buona” è nata soltanto durante il feroce attacco al progetto americano in Iraq. Essa fu il bastone con cui è stata tramortita la missione in Iraq. Fu una sorta di “scambio ferroviario” che avvenne praticamente così: da una parte c’era la guerra buona, necessaria, tra le montagne dell’Afghanistan, la guerra multilaterale nata da una decisione collettiva della NATO – dall’altra la guerra “volontaria” di George Bush in Iraq, combattuta contro l’opinione degli alleati, che pure erano stati dalla nostra parte dopo gli eventi dell’11 Settembre, e la cui buona volontà abbiamo dissipato tra le strade di Fallujah e nei deserti dell’Anbar.

Secondo questa narrazione, le elezioni dello scorso novembre ci avrebbero offerto la possibilità di scrivere la parola fine all’isolamento americano, sia in battaglia che nel mondo. Un uomo con evidenti legami con l’Islam, intessuti sia nella sua identità che nella sua biografia, veniva catapultato alla Casa Bianca. In questo modo avremmo drenato le paludi dell’anti-americanismo. Assalam aleikum (la pace sia con te) con il Cairo, Ankara e Tehran. La grande ostilità, l’ormai fuori moda “scontro di civiltà”, sembrano sorpassati. Una nuova storia è presumibilmente cominciata quando George Bush jr. è ritornato in Texas. Così mentre l’11 Settembre non viene considerato come il casus belli per la guerra in Afghanistan, è sempre viva la minaccia di processare gli uomini e le donne dei nostri servizi di intelligence che si sono fatti carico delle speranze degli americani in quei momenti di sofferenza e pericolo.

Tanto per cominciare, una politica che intende tornare indietro all’11 Settembre non può assolutamente prescindere da una lettura attenta delle radici del radicalismo islamico. L’impeto che ha colpito l’America da Kabul a Baghdad va interpretato in modo corretto. Quelli che attaccarono il suolo americano con le stragi dell’11 Settembre non erano afgani. Erano arabi. Il loro terrorismo deriva dai difetti della vita politica araba. I loro finanziatori erano arabi, così come sono arabe quelle masse che affollarono il Cairo e Nablus e Amman, e che hanno ammiccato al terrore e hanno giudicato quegli attacchi come la giusta punizione per l’America, una buona volta.

La sola Kabul non era sufficiente come “indirizzo di ritorno” in quella guerra crepuscolare; era importante combattere all’interno dello stesso mondo arabo, e il despota a Baghdad ha pescato il filo di paglia più corto. E’ stato sfacciato e ribelle mentre il popolo americano stava vivendo un genuino sentimento di preoccupazione. Saddam aveva bisogno di una lezione. Nessun arabo ha investito sentimentalmente nella figura del Mullah Omar e dei Talebani, ma il regnante di Baghdad era uno dei figli favoriti della Nazione Araba. La decapitazione del suo regime è stato un messaggio di avvertimento per i suoi fratelli.

Oggi il contributo offerto da George Bush è scaduto. Il presidente oltrepassò la linea di non ritorno mentre era davvero nell’aria una Nazione Araba, che si stava muovendo verso le più potenti e pericolose tentazioni. A quanto sembra Obama e i suoi collaboratori non hanno bisogno di pagare un eroico tributo agli uomini e alle donne che hanno governato prima di loro. Eppure il presidente e i suoi hanno malignato così tanto sopra i loro predecessori (e sui loro moventi) che ogni richiamo all’11 Settembre oggi suona forzato, se non addirittura vuoto. Negli anni scorsi il liberalismo americano si è separato dal patriottismo, e il danno è ancora tutto da valutare.

Nelle migliori circostanze, la campagna afgana potrebbe essere considerata un "cliente difficile". Questo è doppiamente vero nel momento in cui l’America si ritrova a fare i conti con una crisi finanziaria in casa propria. Non sembra esserci alcuna tradizione di governo centrale da restaurare in Paesi perlopiù tribali come l’Aghanistan. La lezione e l’analogia con il Vietnam dovrebbe forse spiegare tutto il resto. Questo non è il Vietnam di Obama. E’ esattamente ciò che è – il suo Afghanistan. Ma i paralleli con Lyndon B. Johnson e col modo in cui egli si impegnò durante la sua presidenza, ed impegnò l’intera nazione, in una guerra che lo terrorizzava fin dall’inizio, sono irresistibili.

Ecco Lyndon Johnson nel 1964, citato nel risolutivo saggio di A.J. Langguth, Our Vietnam, pubblicato nel 2000: “Io non penso valga la pena combattere, ma non penso neanche che possiamo uscirne. E’ il più grande dannato casino che si sia mai visto”. Il presidente avrebbe proseguito in quella che definiva “puttana di una guerra” prevedendo che il conflitto avrebbe potuto demolire i suoi programmi sulla Grande Società. Conosceva bene l’animo americano: “Non penso che la gente nel Paese sappia molto del Vietnam, e penso che gliene importi ancora meno”. In più,  si buttò a capofitto nella situazione, provando persino a “barare” – armi e lusinghe allo stesso tempo, la guerra in Asia mista agli impegni casalinghi sui diritti civili e la Grande Società. La storia fu spietata. Provocò una tragedia monumentale in una terra di nessuna importanza per la sicurezza americana.

Le guerre sono ottime per fare chiarezza. Lo squillo di tromba lanciato da Barack Obama suona incerto. La sua chiamata alle armi in Afghanistan non esalta gli animi più di tanto. Il presidente teme davvero il fallimento in Afghanistan. Avendo rinnegato l’Iraq, e messo a distanza il movente della guerra, ora è costretto a impegnarsi nella missione afgana. Così equivoca e gioca col tempo. Comportandosi incessantemente da candidato e non da presidente, Obama concentra la sua attenzione sugli umori dell’opinione pubblica. La tempra d’acciaio che Bush mostrò nel 2007, quando in Iraq sembrava tutto in bilico, non è così evidente nel suo successore.

Obama sarà costretto a fare una scelta difficile per favorire lo sforzo americano in Afghanistan, sarà chiamato a resistere sul campo nonostante l’insorgenza talebana stia aumentando sia dal punto di vista delle forze nemiche sia come portata geografica. Avrà bisogno di un impegno maggiore delle sue truppe sufficiente a rovesciare le sorti della guerra. Ciononostante, dovrà fare i conti con la sinistra del partito democratico e convincerla che in Afghanistan c’è un progetto per cui vale la pena combattere (e da finanziare).

A questo punto è evidente che si tratta di decisione che finora il presidente ha rifiutato di prendere, visto che lo vediamo proseguire spedito nel raggiungimento dei suoi obiettivi interni, lasciando in ballo la questione afgana. Di sicuro si è convinto che le forze della NATO si precipiteranno a lottare sotto le sue insegne, e che l’Europa fino adesso è rimasta lontana da un serio impegno in Afghanistan perché quell’impegno era stato menomato dall’animosità provata nei confronti di Bush. Ma Bush è stato un alibi troppo a lungo: gli europei non hanno mai visto di buon occhio questa guerra.

E’ vero che in Afghanistan c’è un contingente più che sufficiente di forze britanniche ma se è per questo l’Europa ne inviò uno persino in Iraq. Le decisioni di Jacques Chirac e Gerhard Schroeder (che si sono tuffati nel più vigliacco anti-americanismo) ormai sono lontane e sono state  dimenticate, ma francesi e tedeschi non hanno partecipato alla liberazione di Kandahar. Le forti restrizioni imposte alle truppe impiegate sul campo, insieme alle regole d’ingaggio utilizzate da questi Paesi, hanno reso la questione afgana un fardello degli Stati Uniti, ben più di quanto sia accaduto con quella irachena.

Otto anni fa siamo stati visitati dalle “furie” provenienti dal mondo arabo. Siamo stati svegliati di soprassalto da una decade in cui guru ed esperti avevano annunciato la fine delle ideologie, della politica stessa, e il trionfo del world-wide web e del “gregge elettronico”. Così abbiamo scoperto che, dall’altra parte del mondo, i signori del terrore, i predicatori e la loro fanteria, si stavano rivolgendo all’America nel modo più perverso possibile. Siamo diventati, senza saperlo, una delle fazioni della guerra civile che si combatte nel mondo arabo-musulmano, trovandoci a metà tra gli autocrati e i loro figli che non li amavano più, tra coloro i quali desideravano vivere una vita normale e i guerrieri della fede decisi ad imporre il loro volere su quelle terre turbolente.

L’America ha risposto alla chiamata, magari non sempre in modo brillante, ed è per questo motivo che siamo destinati ad essere considerati estranei in quel mondo e, nel contempo, a dover improvvisare e a dover prendere la nostra strada seguendo strade sconosciute. Durante quest’impresa abbiamo incontrato voltafaccia e prostitute di ogni genere, e abbiamo imparato in un attimo usanze e patologie incomprensibili. Sicuramente per noi va meglio quando diamo retta alla nostra visione del mondo. E di sicuro non siamo stati tratti in salvo dalle folle di Parigi e Berlino, o da quelli che ad Ankara e al Cairo fingono di desiderare la nostra amicizia mentre in realtà si struggono per vedere la nostra rovina.

Fouad Ajami insegna Advanced International Studies alla John Hopkins School ed è adjunct fellow allo Stanford’s Hoover Institution. Ha scritto “The Foreigner’s Gift: the Americans, the Arabs and the Iraquis in Iraq” (Free Press, 2007), tra gli altri.

Tratto da The Wall Street Journal

Traduzione di Tommaso Menna