Global warming: Bush apre ma l’Europa non ci sta
24 Aprile 2008
La posizione europea sulle politiche ambientali è
attualmente la più “verde” nel contesto mondiale. Con le dovute eccezioni, i
paesi dell’Unione sono quelli che rispettano maggiormente i vincoli derivanti
dal trattato di Kyoto, che maggiormente subiscono l’handicap (nella
competizione globale) di più alti costi per le misure contro le emissioni di
CO2, ma che di contro dimostrano maggiore responsabilità e sensibilità sul
tema.
Ma se Kyoto è sulla bocca di tutti, è necessario anche tenere
in considerazione il suo impatto concreto sulla realtà effettiva
dell’inquinamento e dell’economia: per questo le posizioni non sono molto
omogenee tra gli Stati e da più parti si è parlato di fallimento di quello che
doveva essere il trattato definitivo sul tema ambientale.
Da un lato ci sono Cassandre sempre pronte ad additare i
produttori e i paesi occidentali come fonte di ogni male, che prevedono
inondazioni e cataclismi; dall’altra ci sono studiosi altrettanto attendibili
che si mostrano molto più scettici e dimostrano come nell’evoluzione storica e
geologica della Terra, lunghi periodi si siano susseguiti senza che fossero le
immissioni nell’atmosfera di CO2 il vero problema.
Correzione di rotta statunitense
L’argomento tuttavia si mantiene attuale per i suoi risvolti
politici. Anche se non se ne sa molto, Kyoto è stato solo il meeting che ha
dato inizio alla serie di confronti sul “global warming” che gli Stati Uniti
hanno gestito nel recente passato. Mercoledì scorso poi il presidente Bush ha
annunciato un piano specifico con grande richiamo mediatico, come mossa per un
significativo cambiamento della posizione che l’amministrazione Bush aveva
preso sul tema dei problemi climatici sin dal 2001. Da allora gli USA hanno
sempre rigettato l’idea che la crescita della temperatura globale fosse il
risultato dell’attività umana, motivo per cui il presidente americano aveva
ritirato gli Stati Uniti dal Protocollo di Kyoto subito dopo l’approvazione del
testo, provocando forti critiche e fastidio nei partner europei e in molti
altri paesi del mondo.
Nell’ultimo anno il presidente ha cominciato a lasciar
intendere di aver cambiato opinione sul tema e il discorso di mercoledì è il
primo annuncio politico che segni “ufficialmente” la svolta: la previsione di
bloccare la crescita di emissioni gas effetto serra entro il 2025. Anche se
ideologicamente è un grosso cambiamento, in termini di azioni pratica che ne
derivano le nazioni europee sentono che il piano americano continuerebbe solo a
peggiorare la situazione.
Una iniziativa concreta di Bush, al di là di comunicati stampa e dichiarazioni,
sono comunque le “discussioni di Parigi”, chiamate Major Economies Meeting
(MEM), che raccolgono le economie trainanti globali, produttrici dell’80% delle
emissioni totali di gas effetto serra. Un gruppo formato ad hoc, che include
anche Cina e India, così come il G8 e l’Unione Europea, su iniziativa appunto
statunitense, che si è riunito per la prima volta lo scorso settembre per poi
ripetere un incontro in gennaio, entrambe le volte negli Stati Uniti e in
previsione di un altro incontro che si terrà al summit del G8 in Giappone, il
prossimo luglio, dove verrà posta la questione di prendere una decisione in
merito al tema. Si tratta di incontri informali, intesi a permettere un libero
flusso di discussioni in preparazione dei colloqui internazionali sul clima di
Copenhagen dell’anno prossimo (che saranno il primo vero e proprio step successivo a Kyoto). Anche
Indonesia, Messico, Corea del Sudo, Brasile e Australia parteciperanno, insieme ai funzionari della
Framework Convention on Climate Change delle Nazioni Unite.
Reazione europea
Agli USA di Bush rispondono molte voci dall’Europa, e per lo
più rispondono con toni accesi e non molta diplomazia. E’ evidente che la
situazione culturale e politica tra i due continenti sia assai diversa, basti
pensare che i nostri conservatori, cristiano-democratici e liberali (il PPE)
hanno approvato in dicembre un “paper” interno sul greenhouse effect e sul global warming che riconosceva Kyoto e
molti punti che all’amministrazione statunitense non erano mai andati giù,
sulle responsabilità delle nazioni industrializzate. Le critiche sono fioccate,
come le agenzie stampa hanno riportato, principalmente dal Commissario UE
dell’Ambiente, Stavros Dimas (fonte AFP), che ha dichiarato in riferimento alla
proposta di arrestare la crescita delle emissioni statunitensi per il 2025 che
“non contribuirà alla lotta contro il cambiamento climatico”. “Il tempo sta
finendo e abbiamo il dovere di raggiungere un accordo nel 2009 a Copenhagen” ha
aggiunto in conferenza stampa, suggerendo agli americani di riconsiderare la
loro posizione e di prevedere piuttosto che un arresto una riduzione delle
emissioni.
Un portavoce della commissione ha poi aggiunto (fonte
Reuters) che “siamo lieti del fatto che il presidente Bush l’altra notte abbia
riconosciuto il bisogno di una legislazione federale con natura legalmente
vincolante per regolare le emissioni di gas da effetto serra negli Stati Uniti
e che per la prima volta abbia fatto riferimento ai cap-and-trade (permessi di
emissioni di CO2 negoziabili)” ma che “ciò non corrisponde al livello di
ambizione che sarebbe dovuto da parte dei paesi industrializzati, considerando
le loro responsabilità nella sfida che stiamo affrontando”. Più duro nel
commento si è dimostrato il ministro dell’Ambiente tedesco, Sigmar Gabriel, che
è stato brusco al punto di definire il discorso di Bush sul tema
“neanderthaliano”. “Il suo discorso ha dimostrato non leadership ma losership,” ha detto il ministro, “siamo
lieti che ci siano anche altre opinioni negli Stati Uniti”. Nel frattempo, il
capo negoziatore sul clima della Francia, Brice Lalonde, è stato appena più
morbido sulla proposta del presidente Bush: “L’attuale amministrazione
americana sta appena iniziando a svegliarsi, ma è un po’ tardi”. Infine Connie
Hedegaard, ministro danese per il Clima e l’Energia e soprattutto colei che
presiederà la Conferenza del 2009 delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici
di Copenhagen, indetta per concordare un nuovo testo dopo il trattato del 1997
negoziato a Kyoto, ha concluso: “E’ positivo che gli USA si stiano smuovendo,
ma è male che si muovano così poco, soprattutto considerando che emettono due
volte CO2 per abitante di quanto non accada in Europa. C’è ancora una lunga
strada da percorrere”.
Sul confronto c’è poco altro da aggiungere: difficilmente
gli Stati Uniti cambieranno posizione per il coro che s’è levato dalla politically correctness europea.
Difficilmente le istituzioni comunitarie prenderanno in considerazione le
ragioni dei cugini d’Oltreoceano. Ma è veramente importante che un qualche
accordo si raggiunga già preliminarmente, affinché Copenhagen 2009 non sia un
fallimento come lo fu nel 1997 Kyoto.