Golfo del Messico, regole più stringenti non salveranno l’ambiente
06 Settembre 2010
La panacea di tutti i mali che si invoca ad ogni piè sospinto è sempre quella. Più regole. L’incendio della Vermilion Oil 830 nel Golfo del Messico, per quanto improduttiva di effetti disastrosi, se non quelli economici subiti per il danneggiamento della petroliera da parte della Mariner Energy, ha subito suscitato allarme e riacceso la voglia di regolamentazioni più stringenti.
Nessuna onda nera. L’azienda petrolifera americana l’aveva anticipato e la Guardia Costiera ha potuto costatare l’esattezza dell’informazione. Nessun disperso e dopo poche ore è rientrata la notizia di un ferito. Ciononostante un incidente efficacemente contrastato dai sistemi di sicurezza prontamente impiegati dalla compagnia petrolifera ha fomentato nuovi appelli a regole più severe. Per il gruppo ambientalista Sierra Group “L’industria petrolifera continua a inveire contro le regolamentazioni, ma è chiaro a tutti che l’approccio attuale alle trivellazioni offshore è semplicemente troppo pericoloso”. Fa eco dall’Italia il Ministro Prestigiacomo, che ritiene più che mai forte il bisogno di “più stringenti regole a livello internazionale”.
Dopo il disastro della petroliera della British Petroleum, il Governo Obama ha tentato a più riprese di imporre una moratoria alle estrazioni off-shore, limitata alle estrazioni a livelli di profondità maggiori (oltre i 500 piedi, ossia 178,5 metri). La sospensione delle attività suscita alcune perplessità ed è giudicata di dubbia legittimità. Di sicuro nuoce alla stabilità finanziaria della British Petroleum, che, fa sapere, incontrerà maggiori difficoltà a risarcire i danni ambientali provocati dall’esplosione dell’impianto nell’aprile scorso a causa della sospensione decisa.
In Italia è invece andata in porto la misura che vieta le trivellazioni a meno di 5 miglia dalla costa (12 miglia nelle aree protette), ossia a livelli mediamente meno profondi. La norma, introdotta nel Codice ambiente (d.lgs. 152/06) dall’ultima riforma (d.lgs. 128/10), in vigore dal 26 agosto, prevede che siano “vietate le attività di ricerca, di prospezione nonché di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi in mare… nelle zone di mare poste entro dodici miglia marine dal perimetro esterno delle suddette aree marine e costiere protette, oltre che per i soli idrocarburi liquidi nella fascia marina compresa entro cinque miglia dalle linee di base delle acque territoriali lungo l’intero perimetro costiero nazionale”.
Quella dell’Italia è stata una reazione scomposta ad un incidente (quello verificatosi lo scorso aprile) avvenuto in condizioni che non si possono verificare nel Mar Mediterraneo. Come ha ben commentato Carlo Stagnaro alcune settimane fa, le difficoltà che si incontrano nel contenere ed arrestare gli effetti di un incidente ad una piattaforma petrolifera che opera a 1500 metri di profondità non ha nulla a che vedere con le attività che si svolgono nel Mar Mediterraneo, a maggior ragione a 5 o 12 miglia dalla costa, a poche decine di metri di profondità.
L’appello a nuove e più stringenti regole comunitarie non trova poi adeguate giustificazioni, tenuto presente che le piattaforme del mare nostrum operano a profondità tra i 100 e i 1000 metri. Analoghe osservazioni sono state espresse a commento dell’incidente della Mariner Energy: gli esperti hanno fatto sapere che, quand’anche si fossero verificate delle fuoriuscite, il problema si sarebbe risolto in tempi decisamente rapidi limitando significativamente i danni all’ambiente.
Ma ogni volta che si verifica un incidente di questo tipo si innescano meccanismi di tipo apotropaico che coinvolgono tanto la stampa quanto la politica. La prima si vede impegnata in un’opera di enfatizzazione di ogni episodio, anche, seppur di gravità infinitamente minore, che presenti alcune analogie. Mai sarebbe stato dato tanto risalto a due incidenti senza vittime né significativi danni all’ambiente come quelli avvenuti nella piattaforma della Mariner Energy e alla petroliera della Woodward Oil arenatasi sul Mar Artico in Canada (anche in questo caso nessun versamento) se non vi fosse stato il precedente della DeepWater Horizon. I policy maker, dal canto loro, vedono solleticate le loro aspirazioni a farsi risolutori dei mali che attanagliano il mondo e sono pronti a migliorare per legge la sicurezza delle industrie, sicuri che non dovranno render conto se i maggiori costi imposti alle imprese siano stati davvero utili a ridurre i rischi.
C’è solo un problema, il processo di creazione di costose e più stringenti regole è cumulativo e va di pari passo con un irreversibile processo di riduzione dei margini di libertà e innovazione dell’impresa. In più, regole più stringenti inducono paradossalmente a comportamenti più rischiosi. Compito dell’impresa non è più salvaguardare la sicurezza dei propri dipendenti, dei propri asset e dell’ambiente in cui opera, ma adempiere agli obblighi di legge. Se questi non bastassero ad evitare un disastro, sarà sufficiente dimostrare il rispetto delle buone tecniche e delle regole fissate dal legislatore.
Spesso l’eroismo che prova di sé il regolatore trascura un dato banale: la sicurezza conviene in primo luogo all’impresa. Il principio della responsabilità individuale, che per primo ha partorito forme di tutela dell’ambiente, come estensione del diritto di proprietà, è la migliore garanzia di sicurezza.