“Gomorra” l’aveva già scritto Sciascia ma non è diventato un eroe

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“Gomorra” l’aveva già scritto Sciascia ma non è diventato un eroe

15 Novembre 2009

“La Sicilia è tutta una fantastica dimensione […] Incredibile è anche l’Italia: e bisogna andare in Sicilia per constatare quanto è incredibile l’Italia”. Forse per questa ragione Leonardo Sciascia, siciliano per scelta del destino, scelse di non lasciare mai la Sicilia. Come se il flusso della sua creatività sgorgasse dal contatto ininterrotto con la terra d’origine, si alimentasse attraverso un cordone ombelicale strozzato, attorcigliato ma sempre intatto. Era una specie di patto di sangue: la Sicilia alimentava la vena dello scrittore e Sciascia raccontava meglio di chiunque la sua isola; e dalla sua isola, come un osservatorio privilegiato, spingeva lo sguardo sulla sua patria più grande, sferzava e sbeffeggiava l’Italia intera.

In Sicilia, a Racalmuto, Sciascia era nato nel 1921; sempre in Sicilia, quella profonda e oscura di Caltanissetta, si era trasferito nel 1935 al seguito dei genitori. Figlio di uno zolfataro e di una casalinga, amava la cultura e doveva guadagnarsi da vivere: frequentò l’istituto magistrale (dove ebbe come insegnante Vitaliano Brancati, suo primo maestro e mentore letterario); poi, dopo aver vestito la divisa nei “servizi sedentari” dell’esercito, iniziò la carriera di maestro elementare. Era un maestro geniale ma svogliato, Sciascia: arrivava tardi a scuola, leggeva il giornale in classe, s’attardava in corridoio a fumare, completamente assorbito dalle sue fatiche letterarie. E ne aveva tutte le ragioni se uno dei suoi primi scritti fu subito notato da Italo Calvino e segnalato con commenti entusiastici all’editore Carocci. Per il maestro Sciascia, all’improvviso, si aprivano le porte di una brillante carriera letteraria.

Cercando la materia di cui scrivere, si rivolse istintivamente a ciò che meglio conosceva. La Sicilia e i Siciliani, la storia e i segreti di una terra straordinaria e infelice. E questa terra Sciascia raccontò con un piglio nuovo, che certo pagava tributo ai grandi della letteratura siciliana (Pirandello in testa) ma proponeva un tono e uno sguardo originale. Nel 1956 pubblicò Le parrocchie di Regalpetra, un resoconto della sua esperienza di insegnante, e l’anno successivo Gli zii di Sicilia, una piccola raccolta di racconti dall’atmosfera intensamente “siciliana”. Nel 1957 fu distaccato a Roma presso il Ministero della Pubblica Istruzione, con la prospettiva di una carriera dirigenziale, ma l’anno dopo era di nuovo a Caltanissetta, a raccogliere spunti e humus per Il giorno della civetta. Pubblicato nel 1961, il lungo racconto – poliziesco e insieme libro di denuncia, romanzo d’ambiente e di formazione – fece scoppiare un caso. Era l’epifania, la materializzazione, il drammatico smascheramento della “mafia”, quel nome nel vento, quella inafferrabile bolla d’aria che aveva condizionato per secoli la vita della Sicilia e messo lo zampino nei passaggi cruciali della storia d’Italia. Era, ancora di più, il superamento di un’intera stagione letteraria, spesa a descrivere i drammi del Fascismo e della guerra e a celebrare la ricostruzione nazionale, e l’inizio di un nuovo capitolo, dedicato alle emergenze della nuova Italia.

L’effetto dirompente del romanzo sollevò, com’era prevedibile, un’ondata di polemiche, ma allo stesso tempo procurò a Sciascia fama e successo internazionale. Il capitano Bellodi, che da solo scoperchia il vaso di Pandora della malavita siciliana, divenne il prototipo dell’eroe antimafia; la mafia e la lotta alla mafia, come Sciascia le raccontava, si impressero nell’immaginario collettivo. Con la forza dello stile e dell’ingegno, il maestro ormai scrittore aveva creato un archetipo, la Sicilia degli uomini “con sguardi da ciechi” e delle donne “insoggolate dentro veli neri”, dei cornuti e degli uomini d’onore, dei boss filosofi e dei poliziotti poeti: tutti elementi destinati col tempo a diventare maniera, luogo comune, caricatura, a maggior gloria dell’intuizione letteraria di Sciascia. Nelle opere successive, in un certo senso, lo scrittore trasse le conseguenze del suo capolavoro. Enunciato il formidabile teorema srotolò uno ad uno i corollari. Scandì i passaggi di un profondo ragionamento sulla legalità e sul malaffare, sul vizio e la moralità, sul senso della dignità umana.

Tornò a parlare di mafia nella commedia L’onorevole del 1965, violenta invettiva contro l’intreccio tra malavita e potere politico, e l’anno successivo nel romanzo A ciascuno il suo, magistrale illustrazione – in forma di giallo – della “sicilitudine”, denuncia dell’omertà e della corruzione e insieme sottile richiamo all’ansia di riscatto. Saziò l’interesse per la ricostruzione storica, già presente nel “giorno della civetta”, spulciando i trascorsi della Sicilia alla ricerca di apologhi, vicende emblematiche, metafore efficaci dell’attualità. E nacquero Il consiglio d’Egitto, Morte dell’Inquisitore, Recitazione della controversia liparitana dedicata ad A. D. (iniziali del leader cecoslovacco Alexander Dubcek), in cui l’autore denunciava il dispotismo dell’Urss verso gli Stati satelliti dell’Europa orientale attraverso la rappresentazione teatrale di una disputa tra il re sabaudo e il vescovo di Lipari nella Sicilia del primo ‘700. Parallelamente Sciascia esplorò i risvolti del romanzo giallo con Il contesto, storia di una delicata indagine intorno a un errore giudiziario e una serie di omicidi eccellenti, e Todo modo, in cui, dentro una trama alla Dieci piccoli indiani della Christie, disegnava un’inquietante miniatura della società italiana del tempo. Per i riferimenti fin troppo espliciti alla realtà e la descrizione poco lusinghiera dei “cattolici che fanno politica”, il libro fu bollato dalle gerarchie ecclesiastiche e risucchiò il suo autore, ancora una volta, nel vortice delle polemiche.

Negli anni ’70, intanto, Sciascia elaborò un modello personale di “non-fiction novel”  sviluppando, con accenti romanzeschi, episodi di vera cronaca, grandi e piccoli misteri della storia italiana. Frutto di questo esperimento furono I pugnalatori, La scomparsa di Majorana e L’affaire Moro: una combinazione avvincente di rigore documentaristico, acume investigativo, critica sociale e raffinata introspezione psicologica; l’ennesimo, appassionato contributo al risveglio civile dell’Italia. Dalla passione civile alla militanza politica il passo era breve, quasi inevitabile. Nel 1975 Sciascia fu eletto consigliere comunale a Palermo nelle file del Partito Comunista, ma appena due anni dopo si dimise per contrasti con la dirigenza nazionale. Comunista lo scrittore non era mai stato, anche se, per sua stessa ammissione, aveva a lungo “pensato comunista”. Si era avvicinato al partito per via delle circostanze, perché in Sicilia comunismo voleva dire resistenza alla mafia e dunque, paradossalmente, libertà. Ma del comunismo Sciascia non poteva sopportare i tratti illiberali, le contraddizioni, la vocazione totalitaria: la rottura divenne a un certo punto l’unica via percorribile.

La carriera politica di Sciascia, però, non s’interruppe. Passato nel Partito Radicale, nel 1979 fu eletto contemporaneamente alla Camera e al Parlamento Europeo. Optò per Montecitorio e fece parte della commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, occupandosi a lungo del sequestro e della tragica fine di Aldo Moro. Ma allo scadere della legislatura, nel 1983, decise di non ricandidarsi: al grido di “il potere è altrove”, chiuse per sempre la sua esperienza parlamentare. In quegli stessi anni lo scrittore cominciò ad avvertire i sintomi di un male pauroso già solo a nominarlo: tumore al midollo osseo. Sempre più spesso fu costretto a lasciare la Sicilia per curarsi a Milano. Sui suoi scritti calò un’ombra, come un oscuro presagio di morte. Ma un’ultima volta, con un colpo “velenoso” di coda, Sciascia tornò a fare Sciascia: nel gennaio del 1987, dalle pagine del Corriere della Sera, lanciò un durissimo atto di accusa contro i “protagonisti dell’antimafia”, magistrati e uomini politici che sfruttavano la lotta alla mafia per smania di carriera e sete di potere. Uno sciame di critiche investì e travolse lo scrittore, accusato di essere un “quaquaraquà”, “oggettivamente mafioso”, e accompagnato dall’infamia fin sul letto di morte. Una parte consistente dell’establishment politico e culturale italiano insorse contro il vate decaduto della lotta alla mafia e Sciascia si ritrovò messo all’angolo, emarginato, senza patroni e ribalte mediatiche per esercitare il suo magistero. La storia di “Gomorra”, dopotutto, è una storia già scritta; e scritta da Sciascia con l’ostracismo e le polemiche di cui fu vittima. Non la malavita, ma la cultura dell’ipocrisia e del “politically correct” l’aveva condannato.

Nel libro Il provinciale, del 1991, Giorgio Bocca si spinse a farne un ritratto impietoso: in panama e vestito di lino bianco, seduto al bar a sorseggiare un caffè e a discettare in perfetto stile mafioso. Un attacco velenoso e gratuito, che tuttavia non intacca l’immagine di uno dei più grandi scrittori italiani di sempre. Lo Sciascia dell’impegno civile e del rigore morale, dell’intransigenza e della vis polemica, dell’accuratezza formale e della perfezione stilistica; Sciascia celebrato all’estero, protetto dai compaesani, amato e odiato dai Siciliani perché della Sicilia mostrava la bellezza dietro le brutture e sapeva cogliere, con precisione quasi infallibile, il carattere, il taglio di luce, il profumo dell’aria. Sciascia che visse da ateo (o almeno da scettico) e in punto di morte decise di partecipare alla “scommessa” di Pascal, che alla sua adorata ragione – segno e presidio dell’umanità più profonda – volle infine riconoscere un fondamento divino.

Leonardo Sciascia morì a Palermo il 20 novembre 1989. Chiese funerali religiosi e sulla sua tomba fece incidere una frase di Villiers de Lisle-Adam: “Ce ne ricorderemo di questo pianeta”. Dopo la sua morte una fondazione, voluta dallo scrittore e a lui intitolata, rilevò la sua collezione di ritratti di scrittori celebri (Sciascia era appassionato di arte, fotografia, incisione), duemila volumi della sua biblioteca e l’intera corrispondenza letteraria tenuta in quasi cinquant’anni di attività. Più tardi, nel 1993, un gruppo di intellettuali e professionisti fondò a Milano l’associazione “Amici di Leonardo Sciascia”, che sul modello dei club letterari francesi si propone di incoraggiare la diffusione dell’opera dello scrittore e la riflessione sul suo pensiero. Tra le attività dell’associazione si segnalano convegni, dibattiti e la pubblicazione di riviste che raccolgono studi, ricerche e contributi originali sulla produzione letteraria di Sciascia. Di questa produzione, poi, gli “Amici” sono da anni impegnati a realizzare un catalogo completo, convinti del suo valore eccezionale ed esemplare.

Per chi riesce a coglierne tutte le sfumature, l’opera di Sciascia rappresenta un formidabile condensato dell’esperienza umana. Un viaggio dal particolare al generale, dalla Sicilia al mondo, dalle circostanze della storia alle pieghe dell’anima, un tuffo nel mistero e insieme uno sforzo straordinario di conoscenza. “Lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità”. In fondo al pozzo Sciascia cercava la verità dell’uomo e del mestiere di esserlo, al di là delle ipocrisie e dei conformismi, dei riflessi meccanici e dei sussulti animaleschi, delle “maschere” della metafisica. Sta ancora laggiù.