Governo Draghi: cuius regio eius religio
10 Febbraio 2021
Ed alla fine il deus ex machina è piombato sulla scena della tragedia politica italiana per ripristinare, seguendo la trama della tragedia greca, l’ordine naturale delle cose dove prima era il caos.
Il Professor Mario Draghi, premier incaricato, si trova di fronte una disgregazione della realtà politica italiana tra le peggiori della storia. Una realtà politica sconvolta dallo scontro tra maggioranza ed opposizione (della quale ultima una parte – la Lega – era stata a suo tempo maggioranza) e dilaniata dalle lotte interne dei singoli partiti con varie intensità ed alterne vicende.
Quindi il compito di Draghi è quello di formare un governo forte, coeso, unito traendolo da partiti in guerra tra loro e con sè stessi.
La situazione, per alcuni versi, sembra curiosamente ricalcare il contesto storico della cosiddetta “pace di Augusta”.
La pace di Augusta fu conclusa nel 1555 tra l’imperatore Carlo V ed i Principi tedeschi dopo tre decenni durante i quali l’intera aerea germanica era stata sconvolta da guerre civili tra cattolici e luterani.
Per mettere fine al conflitto fu deciso che la religione di uno stato sarebbe stata quella del suo sovrano (“di chi è il governo di lui sia la religione”).
Tale formula, nella sua apparente durezza da realtà effettuale, aveva il merito di riconoscere policamente il movimento protestante (e l’esistenza di stati protestanti) nell’ambito del Sacro Romano Impero.
Spegneva il dissenso all’interno dei singoli stati ma lasciava ai singoli credenti la possibilità di trasferirsi là dove il loro culto sarebbe stato ufficialmente riconosciuto.
In buona sostanza, il principio garantiva un sovrano protestante della ragionevole certezza che i suoi sudditi cattolici non avrebbero preso partito per il Papa ogni qualvolta la chiesa romana avesse cercato di imporre le proprie strategie (essendo all’epoca la chiesa cattolica non solo potere spirituale ma anche, a tutti gli effetti, una potenza politica europea).
Lo stesso principio (cuius regio elios religio) potrà essere, a quello che sembra, la cifra politica del governo Draghi. E cioè un riconoscimento da parte dei partiti che appoggeranno direttamente il premier incaricato di quella “teologia politica”, secondo la terminologia di Weber, di cui Draghi è portatore ed interprete.
Come nella pace di Augusta, il principio farà sì che il governo Draghi non farà nulla per intromettersi nelle singole sfere ideologiche dei partiti di governo (e nemmeno in quelli eventualmente di opposizione). Coloro che, nei singoli partiti, non si ritrovassero nella teologia di governo espressa da Draghi potranno, dal punto di vista parlamentare, emigrare.
Ma tutto lascia credere che, nella quasi totalità, si adatteranno alla confessione politica di Draghi: che, non dimentichiamolo, ha il compito immane di raddrizzare un’intera nazione a fronte delle tragedie sanitarie ed economiche della pandemia.
Pertanto discettare se il governo Draghi sia un governo tecnico o politico, se sia un governo alla Monti o alla Ciampi non è difficile: è inutile.
Il governo Draghi nasce per ottenere un consenso volontario dei partiti non solo alla cessione di autorità politica nei confronti del premier ma anche alla contrapposizione – finchè durerà il governo- delle diverse ideologie che potranno sì permanere ma all’interno della sintesi governativa espressa dal Premier.
E per i partiti non sarà una passeggiata di salute. Per nessuno di essi. L’illusione di poter strumentalizzare Draghi per cercare surrettiziamente il prevalere dei propri argomenti di fede politica nei confronti di quelli degli altri sarà stroncata dall’operatività del governo medesimo, dove principio di lealtà, dura prassi, brevitas dei comunicati, ottimizzazione dei percorsi amministrativi, finalizzazione in chiave europeistica della richiesta di risorse spazzerà ogni inconcludente retorica partitica da comizio elettorale.
L’unico atteggiamento che sarebbe produttivo, in termini elettorali, da parte dei partiti e dei loro esponenti all’interno di un quadro governativo che si fa sempre più teologico in senso finanziario (il capitalismo come religione di stampo weberiano) sarebbe quello di presentarlo quale superamento del “limite dell’utile”.
Utile che sarebbe, di fatto, rappresentato dagli interessi particolari del singolo partito o della coalizione: interessi particolari che ne segnerebbero anche il perimetro, il limes (limite).
Ricorda Bataille che alcune culture native possedevano un sistema di scambio apparentemente paradossale il “potlatch”. Il potlatch è, come in commercio, un mezzo di circolazione della ricchezza, del prestigio, ma esclude il mercanteggiamento. Per lo più è il dono solenne di ricchezze considerevoli offerte da un capo politico ad un altro capo politico rivale con lo scopo di umiliarlo, sfidarlo, obbligarlo.
Il donatario per cancellare l’umiliazione e raccogliere la sfida è costretto a soddisfare l’obbligazione contratta con l’accettazione: potrà rispondere, un poco più tardi, soltanto con un nuovo potlatch rigorosamente più generoso del primo. E’ la sfida che ogni singolo partito, dai 5 Stelle al PD, da Forza Italia alla Lega fino a Fratelli d’Italia e le altre formazioni minori, dovrebbe lanciare ed accettare: rinunciare al proprio recinto di appartenenza ed alle proprie proposte di appartenenza ideologica sfidando ed obbligando gli avversari a fare lo stesso. Ne saranno all’altezza? Vedremo.