Gran parte del mondo culturale ha molto da ridire sul pareggio di bilancio

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Gran parte del mondo culturale ha molto da ridire sul pareggio di bilancio

22 Aprile 2012

Chi firma questo pezzo non ha nessuna intenzione di farsi passare per esperto di economia. Scrive soprattutto di cultura, quello è il suo campo e non dovrebbe sconfinare. Vero che ha un debole per Ezra Pound, ma non lo ha seguito negli studi economici, nell’indagine ossessiva sul rapporto fra soldi e cultura. E pensare che si tratterebbe di cose più profonde di meri calcoli matematici, di critiche alle manovre finanziarie: si finisce nel mondo del sacro, alla nascita delle monete come amuleti, ai culti del grano e del sole. Perché la cultura era in origine, e ancora dovrebbe essere, coltura, coltivazione: dunque, c’entrano eccome la produzione di ricchezza e la sua distribuzione. Però non si tratta di aderire per forza alla polemica poundiana contro l’usura, in comunione con monaci francescani, Dante, Chesterton e, ricordiamolo, dottrina sociale della Chiesa Cattolica. Non si tratta di diventare militanti di Casa Pound né di ripetere meccanicamente slogan contro la dittatura tecno-finanziaria e il dominio del signoraggio bancario.

Ma un paio di cose verrebbero da dire in merito al ddl votato dal Senato che inserisce nella Costituzione mica una bazzecola, tra l’altro con una maggioranza tale e trasversale da poter sfuggire la prova del referendum popolare confermativo. Nell’articolo 81 della Carta fondante la nostra repubblica potrebbero entrare queste parole: “Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio”. 

Rassicurante? All’apparenza, forse. Non solo perché il pareggio in bilancio, se ben ricordiamo, è stato raggiunto in momenti della nostra storia non troppo democratici, ai tempi della destra storica e del regime fascista. Certamente sarebbe cosa molto gradita all’Unione Europea, e alla solita Germania. Secondo il ddl la macchina statale deve fare di tutto per evitare ogni indebitamento: oggi significherebbe che non deve uscire dai parametri comunitari, sennò viola la Costituzione, diventa un fuorilegge e chissà che succede. Ovviamente si terrebbe “conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico”, ma l’indebitamento sarebbe permesso solo dalle due Camere unite in occasione di “gravi recessioni e crisi finanziare” (non come quella che stiamo attraversando?  peggiori?) o calamità naturali. Poi ogni legge “che importi nuovi o maggiore oneri” dovrebbe provvedersi “di mezzi per farvi fronte”, anche se viene lasciata discrezionalità sui mezzi. I soliti pessimisti hanno subito pensato al mezzo classico: le tasse. Certo, ci sarà un nuovo organismo, (speriamo non nuovi superstipendi) “indipendente”, forse non da tutto e tutti, “al quale attribuire compiti di analisi e verifica degli andamenti della finanza pubblica”. Però non si parla chiaramente di riduzione della spesa pubblica, dunque il dubbio che il pareggio di bilancio finiremo per pagarlo tutti noi con nuove imposte forse è legittimo.     

Lasciamo perdere i timori di future abnormi pressioni fiscali, le paranoie sulla tirannia dell’alta finanza, ogni dubbio “tecnico” sull’effettiva funzionalità di questa variante della Costituzione. Siamo sicuri che il nostro Primo Ministro, tanto convinto della bontà del decreto dall’averlo votato e sponsorizzato in Senato per poter dire “io c’ero”, potrebbe far crollare ogni nostra critica sull’operato del governo intorno all’economia. Allora, proviamo a non parlare solo di economia, ad uscire un poco da questa cappa di numeri che veramente signoreggia il discorso pubblico oltre che la vita concreta di ognuno di noi. Se la cultura ha qualcosa da dire sul pareggio in bilancio inserito nella legge fondamentale dello Stato, se deve esprimere dubbi e contrarietà, è per qualcosa che sta a monte.

La metafora del buon padre di famiglia che deve far tornare i conti regge fino ad un certo punto: se molte famiglie non si fossero indebitate, se ancora oggi non si indebitassero, gran parte della civiltà si fermerebbe. Il rischio, il dono, il sacrificio mandano avanti il mondo da millenni, senza che piani quinquennali e manovre finanziarie riescano mettere le briglie. Lo Stato che decide per principio, che incide sulle sue tavole della legge, di non rischiare, tenta di esorcizzare la povertà al prezzo di negarsi la possibile abbondanza. Non sacrifica, e così poco gli tornerà indietro. Ecco perché invece di pensare a defiscalizzare le attività artigianali e culturali, ad incentivare la creazione di posti di lavoro nei settori della comunicazione, del turismo, dello spettacolo (le risorse storiche del nostro Paese) si pensa solo a far quadrare il bilancio. Avremmo bisogno di uno Stato che stimoli la nascita di nuovi Mecenate o Lorenzo de’ Medici non la sopravvivenza di Monsù Travet.

Odora di risparmio piccolo borghese questo ddl, di mancanza di prospettive per il futuro, (infatti entrerebbe in vigore nel 2014, anche perché il Grande Fratello Fondo Monetario ci ha già fatto sapere che di pareggiare i conti l’anno venturo ancora non se ne parla). Odora di povertà d’iniziativa, di perdita dell’arte d’arrangiarsi. Odora molto d’avarizia. E torna in mente Pound; negli anni della vecchiaia riconsiderò le sue idee economiche, ammettendo che il vero peccato in economia non è l’usura ma proprio l’avarizia.