Grandi coalizioni. Gli anni della solidarietà nazionale

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Grandi coalizioni. Gli anni della solidarietà nazionale

06 Aprile 2008

Maurizio Stefanini, giornalista e saggista, collaboratore dell’Occidentale, ha appena pubblicato, per Boroli editore, il libro “Grandi coalizioni. Quando funzionano, quando no”. Un’analisi complessa e articolata in cui l’autore racconta la lunga transizione italiana e tutte le fasi della nostra storia in cui sono tornate alla ribalta le ipotesi di Grande coalizione. Vi proponiamo qui di seguito il capitolo relativo agli anni della Solidarietà Nazionale, di cui Aldo Moro è stato protagonista e vittima.

E torniamo in Italia. Dove nel 1953 il tentativo di De Gasperi di blindare la formula centrista attraverso il premio di maggioranza della cosidetta Legge Truffa, come l’avevano ribattezzata le opposizioni, era stato sconfitta alle elezioni. Dove nel 1960 anche l’apertura della Dc alla destra era stata bloccata dalle insurrezioni di piazza del governo Tambroni. Dove dal 1962 si era allora in alternativa avuto quell’allargamento al Psi definito centro-sinistra, e tradotto in formula di governo dal 1964. Dove però i troppi contraccolpi del ’68, dell’autunno caldo del ’69, del fallimento della riunificazione tra Psi e Psdi del 1966-69 e dell’avanzata della destra alle amministrative del 1971 portarono alla rottura tra Dc e Psi: sancita dalla contrapposizione formale alle votazioni del 1971 per la Presidenza della Repubblica. E dove nel 1972 si era tentata dunque la ricostituzione della formula centrista, col Pli e senza il Psi, presto rivelatasi però con un margine troppo ristretto per poter essere vitale. Nel 1973 il ritorno del centro-sinistra non è però più la grande prospettiva strategica di rinnovamento di dieci anni prima, ma solo una scelta obbligata per mancanza di alternative. Nel 1974 la vittoria del no al referendum sul divorzio segna una nuova grande ondata a sinistra, che nel 1975 porta il Pci a un passo dal sorpassare la Dc alle regionali: 33,4% contro 35,3. Pungolato anch’esso da quella spinta, il Psi interrompe la collaborazione con la Dc, provocando le elezioni anticipate del 1976.

Il Pci, che insisteva per la formula del Compromesso Storico con la Dc, arrivò al 34,37%, con 227 deputati. Ma la Dc recuperò fino a 38,71% e a 263 seggi: asciugando all’osso liberali e socialdemocratici, risucchiando voti anche al Msi, e impedendo un decollo repubblicano che i sondaggi davano come sicuro. “La Dc s’è salvata divorando i suoi figli”, commentò Arnaldo Forlani. Anche i socialisti perdevano quattro seggi, mentre entravano per la prima volta sei deputati della lista di estrema sinistra di Democrazia Proletaria e quattro del Partito Radicale, allora anch’esso collocabile in quell’area. Su 630 deputati e 315 senatori eletti la formula centrista era ormai impossibile: 297 deputati, 149 senatori. Il centro-sinistra ne avrebbe avuti 349 e 176, più che sufficienti. Ma il Psi non lo voleva più. Il Psi, come Dp e radicali, chiedevano invece l’alternativa di sinistra, anch’essa però insufficiente: 294 deputati e 145 senatori. E anche imbarcando Pri e Psdi, come era accaduto dopo le regionali in molte giunte locali, ci sarebbe stata sì alla Camera una risicata maggioranza di 323 deputati, ma con 157 senatori ne sarebbe mancato uno. Allora nessuno avrebbe pensato di sostenere un governo coi senatori a vita, e comunque il Pci insisteva di voler un abboccamento con la Dc a tutti i costi. Mentre Psdi e Pri avevano fatto sì qualche apertura al Pci in campagna elettorale se non ci fossero state alternative: ma non fino all’idea di mandare la Dc all’opposizione.

Insomma, un bell’impiccio. Ulteriormente aumentato dal rivolgimento che in capo a un mese portò nel Psi al rovesciamento dello sconfitto gruppo dirigente di De Martino con una nuova leva di quarantenni rampanti che elesse segretario Bettino Craxi, ma i cui connotati non erano ancora del tutto identificabili. Ancora Presidente del Consiglio in carica, Aldo Moro provò a sondare gli altri capi di Stato e di governo del G-7 a Portorico, su un possibile ingresso al governo di quel Pci il cui segretario Enrico Berlinguer aveva pur detto in tv di trovarsi bene “sotto l’ombrello della Nato”. Ma i partner fecero sapere che col Pci nella stanza dei bottoni l’Italia non avrebbe più avuto nessun aiuto. D’altra parte, il Fondo Monetario Internazionale chiedeva che un governo si facesse in tempi rapidi. La trovata di Giulio Andreotti fu chiamata Non Sfiducia: un monocolore democristiano, su cui il Pci si asteneva. Come d’altronde Psi, Psdi, Pri e Pli, l’intero Arco Costituzionale erede dell’Esarchia del Cln. “È quella cosa che noi non gli diamo ma a lui va bene lo stesso”, disse della Non Sfiducia il comunista Pajetta. Il Pci si accontentò comunque di quel primo passo verso il potere dopo la cacciata dal governo del 1947. Anche perché stava ancora digerendo l’insediamento nella maggior parte dei governi locali conquistati, con i sindaci di tutte le maggiori città. E gli fu data anche la Presidenza della Camera, a Pietro Ingrao, e sette Presidenze di Commissioni, contro dieci della Dc, cinque del Psi, una a testa a Pri e Psdi. Tra queste la Commissione affari costituzionali della Camera, cui fu eletta la vecchia compagna di Togliatti, Nilde Jotti.

In realtà, la svolta era più apparente che reale. Già da tempo infatti il Pci collaborava massicciamente con gli altri partiti dell’Arco Costituzionale nel sottogoverno e nella redazione della maggior parte delle leggi: e avrebbe d’altronde continuato anche dopo il 1979. Ma, come e ancora di più che nella Germania della Grosse Koalition, nel Paese fu grande lo sconcerto per quell’”ammucchiata” che lasciava all’opposizione solo Democrazia Proletaria, radicali e Msi, quest’ultimo peraltro subito dimezzato dalla scissione filo-Dc di Democrazia Nazionale. Arrivato al suo massimo storico, il Pci iniziò a perdere alla sua sinistra sempre più elettori delusi: che in parte si rivolsero al Partito Radicale, in parte all’opposizione di piazza dell’Autonomia, in parte addirittura al terrorismo rosso, che infatti in quegli anni crebbe al massimo. Il Pci a sua volta nei confronti del continuo deterioramento dell’ordine pubblico iniziò a prendere delle posizioni di tipo legalitario che indignarono ulteriormente questo crescente dissenso. “Stretti, stretti/ nell’accordo di governo/ in galera si va così/ con l’accordo Dc-Pci”, cantavano gli “ultrasinistri” sull’aria di La spagnola. E altro dissenso lo procuravano le prediche del segretario comunista Berlinguer e di quello della Cgil Luciano Lama in favore di “sacrifici” e “austerity”, in quegli anni di grave crisi innescata dagli aumenti dei prezzi del petrolio seguiti alla Guerra del Kippur del 1973. Il 17 febbraio 1977 lo stesso Lama fu duramente contestato all’Università di Roma, dove aveva cercato di fare un comizio. Pure nel 1977, a Ferragosto, il criminale di guerra nazista Herbert Kappler, condannato all’ergastolo per le Fosse Ardeatine, scappò dall’Ospedale Militare del Celio dove era ricoverato, nascosto dalla moglie in una valigia. Su quella storia fu sostituito il Ministro della Difesa Vito Lattanzio.

Nel frattempo, il Pci si preparava a fare un secondo passo. Lo preannunciò Berlinguer da Mosca, dove era andato per i festeggiamenti dei sessant’anni della Rivoluzione di Ottobre, e dove il 2 novembre affermò che la democrazia doveva considerarsi “il valore storicamente universale sul quale fondare un’originale società socialista”, col mantenimento di “tutte le libertà personali, civili e religiose”. Più che una critica larvata al modello sovietico, quello “strappo” era un ulteriore tentativo di garantire l’Occidente, in vista della richiesta di un coinvolgimento diretto nella maggioranza. Anche perché, ormai, anche il segretario del Pri Ugo La Malfa chiedeva un “governo di emergenza” con dentro Dc e Pci assieme. Il gennaio 1978 Andreotti presentò le sue dimissioni al Presidente Leone. Il 28 febbraio 1978 Aldo Moro, Presidente del Consiglio Nazionale della Dc, espose ai gruppi parlamentari democristiani il suo ultimo discorso pubblico. “È ormai impossibile riproporre lo schema classico del rapporto maggioranza-minoranza”, spiegò. “Il 20 giugno 1976 abbiamo avuto una vittoria ma non siamo stati gli unici vincitori. I vincitori sono stati due, e due vincitori in una battaglia creano certamente dei problemi. Noi siamo in condizione di paralizzare in qualche modo il Partito Comunista e il Partito Comunista è a sua volta in grado di paralizzare, in qualche misura, la Democrazia Cristiana”. Soluzione proposta: “trovare un’area di concordia, un’area di intesa tale da consentire di gestire il Paese finchè durano le condizioni difficili alle quali la storia di questi anni ci ha portato”.

Lo stesso Moro, però, specificava pure che “una intesa politica che introduca il Pci in piena solidarietà con noi non la riteniamo possibile”. Traduzione: non i comunisti al governo, ma un nuovo monocolore democristiano, votato da loro direttamente. In effetti il governo che Andreotti presentò poi l’11 marzo 1978 non teneva minimamente conto delle indicazioni del Pci, né in termini di nomi, né a proposito del richiesto accorpamento delle troppe poltrone. Vi fu chi parlò di “provocazione”, Pajetta disse che non sarebbe andato alla Camera a votarlo, e la stessa direzione del Pci si riservò di decidere solo dopo il discorso di investitura, previsto per il 16 marzo. Quella stessa mattina, Aldo Moro fu rapito dalle Brigate Rosse. Un evento dietro il quale in molti hanno visto le torbide manovre di chi voleva impedire che il Pci continuasse il suo avvicinamento al potere. In concreto però, nell’immediato, persuase invece il Pci a votare la fiducia. Assieme a Psi, Psdi e Pri, mentre il Pli passò all’opposizione.

Guardando però nel lungo periodo, non c’è dubbio che il rapimento e l’omicidio di Moro provocarono un soprassalto tale da porre fine all’ondata a sinistra iniziata in Italia dieci anni prima. “Ma noi di sinistra in cosa abbiamo sbagliato?”, titolò Panorama, allora ancora collocato in quell’area, interrogandosi sia sul mito della violenza rivoluzionaria, sia sul modo in cui si era minimizzato l’allarme delle Br. Alle prime elezioni locali in agenda si videro subito avanzate strepitose della Dc, successi degli altri partiti di centro e del Psi di Craxi, e un crollo vistoso del Pci, sempre più incalzato a sinistra dai radicali. Gli stessi radicali avevano proposto i due referendum che furono votati il 2 giugno del 1978: abolizione della Legge Reale sull’ordine pubblico, che il Pci ora difendeva dopo averla avversata nel 1975 quando era stata votata; abolizione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti. Stando alle indicazioni dei partiti stessi, i no avrebbero dovuto avere il 90%. Invece sulla Legge Reale si fermò al 76,5%, e sul finanziamento dei partiti addirittura al 56,4. Mentre scalava la Hit Parade una canzone di Rino Gaetano che scandiva: “Dc Dc/Pci Psi/ Pri Pli/ nun ta reggae cchiù!”, spaventato dal clima di scontento che si rivelava Berlinguer decise di associarsi alla campagna che avevano iniziato i radicali per chiedere le dimissioni del Presidente Leone: coinvolto in quello scandalo Lockheed sulle tangenti per la vendita di aerei militari che aveva scombussolato già mezzo mondo, dal principe consorte olandese Bernardo al premier giapponese Tanaka. Per evitare guai al governo, Andreotti e il segretario dc Zaccagnini convinsero Leone ad andarsene, il 15 giugno 1978. Il 9 luglio fu eletto al suo posto il socialista Alessandro Pertini.

Nel frattempo, l’economia aveva ripreso ad andare: più per la congiuntura internazionale che per l’operato del governo. Ma l’effetto fu paradossalmente controproducente, nel senso che spinse la base comunista a chiedere aumenti di salari, da cui una radicalizzazione anche dei dirigenti. Un primo grave scontro ci fu sull’adesione al Sistema Monetario Europeo, che il governo decise col voto contrario del Pci. Infine la direzione comunista votò la sfiducia al governo, e il 25 gennaio Berlinguer lo comunicò a Andreotti. Pertini provò a dargli un reincarico; i comunisti chiesero di avere ministri; il Psdi e gran parte della Dc si opposero; Andreotti rinunciò; Pertini provò a dare un incarico a La Malfa, poi un altro a Saragat. Inutile. Finì con un tripartito Dc-Psdi-Pri a guida Andreotti, che preparò le elezioni anticipate da cui il forte recupero dei partiti laici e l’impetuosa avanzata dei radicali, a spese dei comunisti. Si preparavano le condizioni per il pentapartito Dc-Psi-Psdi-Pri-Pli, integrazione di centrismo e centro-sinistra. Anche se per la sua partenza effettiva si sarebbe dovuto aspettare il primo governo Spadolini del 1981.

Della solidarietà nazionale restarono alcune grandi riforme famigerate per la loro farraginosa inutilità, da quella sanitaria a quella dell’equo canone. E anche un ricordo associato a anni di recessione e violenza. Che pesa ancora in Italia come un macigno, ogni volta che si parla di grandi intese.