Grazie ai grillini la casta diventa supercasta
11 Ottobre 2019
di Aldo Vitale
Approvata la riforma grillina del riassetto del Parlamento – pur incompleta in mancanza di una adeguata uniformazione dei regolamenti dei due rami del potere legislativo e di una legge elettorale che riesca a tradurre in modo compiuto la volontà popolare secondo una stabilità realmente democratica – tutti sembrano essere contenti del risultato che ha ridotto di 1/3 deputati e senatori con lo scopo di apportare benefici nelle casse dello Stato con un risparmio che dovrebbe aggirarsi intorno agli 80-100 milioni di euro all’anno, cioè circa lo 0,014 del bilancio dello Stato che ammonta a circa 560 miliardi di euro all’anno.
Tralasciando le sterili logiche contabili, da cui peraltro risulta evidente il ridicolo ammontare del risparmio che tale riforma apporterebbe, occorre effettuare alcune considerazioni che balzerebbero agli occhi dei più se solo non si fosse accecati dall’ideologia e se solo si prestasse più attenzione alla sostanza delle vicende piuttosto che alla loro forma.
In primo luogo: si può affidare la riforma di una istituzione rappresentativa e democratica al solo criterio contabile che sorregge la riforma medesima senza preoccuparsi degli effetti che da essa si generano? Insomma, se l’unico principio-guida è quello del risparmio economico, perché limitarsi a tagliare “soltanto” di 1/3 il numero dei parlamentari? Perché non prevedere solo 1 parlamentare per ogni partito ottimizzando al massimo la suddetta esigenza di risparmio, e consegnare il Parlamento a non più di una ventina di parlamentari? Sarebbe però davvero democratico un Parlamento composto da circa una ventina di individui?
Le limitazioni costitutive della attuale classe politica (cioè di quella degli ultimi 30 anni almeno), salva qualche rara individuale eccezione, sono palesi per tutti gli osservatori, ma una simile riforma non può che peggiorare la situazione.
Una classe politica come quella italiana, già debole per motivi endogeni (autoreferenzialità, scarsa credibilità, pessima preparazione storica, economica, giuridica e politologica, mancanza di visione strategica, quasi totale inaffidabilità, trasformismo quotidiano ecc) ed esogeni (tirannia eurocratica, potentati finanziari internazionali, magistratura in funzione suppletiva in costante espansione ecc), che viene ridotta forzatamente di numero non può rafforzare i pregi che dovrebbe acquisire, né indebolire i difetti che dovrebbe perdere poiché non si possono mai confondere il concetto di rappresentatività (cosa diversa dalla “mera rappresentanza” come insegna, tra i tanti, il costituzionalista Temistocle Martines) con quello di responsabilità (sociale, politica, giuridica e morale).
In secondo luogo: un minor numero di parlamentari non può garantire necessariamente una migliore qualità della politica, in quanto il criterio quantitativo non può mai tradursi automaticamente in un criterio qualitativo: la pasta non potrà mai essere considerata più buona, prescindendo dal condimento utilizzato, sol perché se ne cucinerà una maggiore quantità.
In terzo luogo: l’erosione della classe politica tramite la riduzione del numero dei parlamentari non è una scelta “neutra”, ma ispirata dalla visione di Rousseau – a cui il Movimento 5 stelle si richiama espressamente – che per l’appunto era contrario alla democrazia rappresentativa, e, lungi dal costituire una garanzia di maggiore libertà per il cittadino, dovrebbe, invece, essere fonte di seria preoccupazione, essendo il pensiero di Rousseau il ganglio di giunzione tra l’assolutismo di Hobbes e il totalitarismo novecentesco, come, tra i tanti esempi citabili, ricorda uno dei maestri quale è stato Guido Fassò per il quale, infatti, «nella dottrina rousseauiana, nonostante lo sforzo dialettico per armonizzare la volontà dello Stato con quella degli individui e per salvaguardare i diritti inalienabili dell’uomo, resta il germe della teoria che sarà dello Stato etico, dello Stato cioè che, pretendendo con argomentazioni filosofiche di rappresentare e di realizzare la volontà
dell’individuo anche ad insaputa od a dispetto di questo, in realtà gli impone la volontà propria intesa come volontà avente valore assoluto, aprendo la via ad una nuova forma di assolutismo».
Una tale riforma, dunque, non è per nulla ispirata da un pensiero liberale e realmente democratico, ma da una logica sostanzialmente assolutistica e liberticida, con l’incauto consenso dei più che invece di reagire pigramente vi plaudono.
In quarto luogo: riducendo il numero dei rappresentanti, di fatto, si riduce il peso dei rappresentati, per logiche puramente matematiche: se 10 rappresentanti rappresentano 10 rappresentati, il potere dei primi sarà pari ad 1; se 5 rappresentanti rappresentano 10 rappresentati, il potere dei primi raddoppia e quello dei secondi si dimezza.
Si aggiunga, peraltro, che ridurre il numero dei rappresentanti, specialmente in un contesto storico-sociale fortemente frastagliato come quello attuale di cui tutti da ogni parte evidenziano il pregio della diversità, della multiculturalità, del politeismo dei valori e dei pensieri, della multietinicità, della poli-religiosità, significa proprio ridurre la possibilità che tutte le molteplici istanze e voci sociali possano trovare adeguata rappresentanza, quindi ridurre di fatto le potenzialità della rappresentanza (rectius, rappresentatività) politica – nata contro l’assolutismo regio e soprattutto significa ridurre le “capacità democratiche” – già del resto fin troppo precarie – del sistema politico italiano.
La rappresentatività, criterio fondamentale per misurare l’indice democratico di un dato sistema politico e giuridico, dunque, rischia di essere fortemente ridimensionata, con una conseguente deminutio della democrazia italiana nel suo complesso e tutto ciò, paradossalmente, ad opera di un organo rappresentantivo democratico quale è il Parlamento.
Come ha notato Sabino Cassese (link) una riforma simile rischia di trasformare la casta in una vera e propria oligarchia, avvenendo ciò proprio per mano di coloro che, come i grillini, all’elitarismo della politica si sono sempre opposti a parole, ma che invece stanno favorendo e rafforzando nei fatti.
In conclusione, quindi, risuonano quanto mai cristalline e calzanti le riflessioni di Etienne de La Boétie allorquando scrisse che «sono dunque i popoli stessi che si lasciano incatenare, perché se smettessero di servire sarebbero liberi. E’ il popolo che si fa servo, che si taglia la gola da solo, che potendo scegliere tra servitù e libertà, rifiuta la sua indipendenza e si sottomette al giogo, che acconsente al proprio male, anzi lo persegue».