Grazie alla poesia, Milosz riuscì a sfuggire alle prigioni del totalitarismo
16 Aprile 2011
di Luca Negri
Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone: “gli italiani più grandi che io abbia mai conosciuto”. Parola di poeta, di Czeslaw Milosz, anche premio Nobel, uno dei pochi del tutto azzeccati, non solo per meriti artistici ma anche politici: era il 1980 e gli operai cattolici di Solidarnosc usarono i suoi versi per salutare i lavoratori uccisi dal regime comunista.
Miłosz, forse la più ispirata voce poetica del secolo scorso (in compagnia di T. S. Eliot) era però più lituano che polacco. A giugno saranno cent’anni esatti dalla nascita e se n’è andato da neanche due lustri. Da ragazzo voleva seguire lo stesso impulso dello zio, Oscar Milosz, uno dei geni letterari meno conosciuti del novecento. Ma la vita di chi abitava su quell’epicentro di tensioni europee non poteva certo esser quieta e adatta alla poesia pura. Czeslaw si era avvicinato alla sinistra, faceva stampa underground, si trovava nell’occhio del ciclone, a Varsavia. Vide con i suoi occhi i nazisti massacrare gli ebrei del ghetto, e vide i sovietici sull’altra sponda della Vistola annuire soddisfatti. Vide, insomma, il mostro totalitario che si mostrava allo specchio.
Chiese e ottenne asilo politico in Francia, erano gli anni ’50 e fra gli intellettuali della rive gauche il comunismo era molto di moda. Milosz non si capacitava della loro cecità e scrisse anche per loro “La mente prigioniera”. In quelle pagine raccontava in prosa la condizione di asservimento, di umiliazione dell’autonomia umana sotto il regime sovietico e sotto l’influenza del pensiero marxista. Certo non tirava aria buona in Europa per tesi simili: si trasferì in California, e insegnò poesia a Berkeley, epicentro della controcultura giovanile dei ’60 che non lo entusiasmò troppo. Continuò a scrivere poesie e saggi, da cattolico praticante ma filosoficamente ispirato da eretici come Emanuel Swedenborg, William Blake, Simone Weil. Le sue opere sono pubblicate in Italia da Adelphi che da poco ha edito un libro fondamentale per conoscerlo: Abbecedario, Scritto sul finire dei ’90, racconta il secolo in ordine alfabetico; un po’ romanzo in frammenti, un po’ diario di ricordi.
Dentro ci sono luoghi e persone lituani, polacchi, parigini e nordamericani, più o meno noti. C’è anche un po’ d’Italia e alla lettera C, fra “Centro e periferie” e “Chiese”, l’abbecedario piazza Chiaromonte Nicola. E lì Milosz scrive che il suddetto e l’amico Ignazio Silone sono stati gli italiani più grandi mai conosciuti. “Rappresentavano ai miei occhi l’onestà intellettuale assoluta”, aggiunge. E allora ricordiamoli un attimo, Chiaromonte e Silone ricordiamo chi erano. Il secondo mica ha solo scritto “Fontamara”. Antifascisti fin da subito, il primo in Giustizia e Libertà, Silone nel partito socialista fino alla storica scissione di Livorno del 1921 per seguire Gramsci, Bordiga, e gli altri leninisti che fondarono il Pci. Poi i due fuggirono in Francia lontani dalle grinfie di Mussolini, poi in Spagna per combattere i franchisti. E poi, dopo lo spettacolo dei processi di Mosca, maturarono insieme una radicale dissidenza nei confronti del comunismo russo e italiano, staliniano e togliattiano.
Negli anni ’50 fondarono “Tempo presente”, dove c’era spazio per un socialismo libertario attento al messaggio cristiano. Rivista che si vocifera fosse finanziata dalla Cia; se fosse vero, basterebbe a dimostrare che i servizi segreti Usa non sono tanto cattivi. Erano ormai, Chiaromonte e Silone, non solo antifascisti ma coerentemente anticomunisti. E furono due grandi italiani; ricordiamoli già che stiamo celebrando l’Unità, ricordiamoli, con l’aria che tira nella politica e cultura italiana oggi, fra invocazioni golpiste e di nuovo il gambizzare per le strade di Roma. Due grandi italiani, ripetiamo. Antitotalitari, antifascisti e anticomunisti, parola di poeta