Grillo e Conte, come Don Chisciotte e Sancho Panza

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Grillo e Conte, come Don Chisciotte e Sancho Panza

30 Giugno 2021

Il capitolo LXXIV del Don Chisciotte di Cervantes tratta della malattia, testamento e morte di Don Chisciotte. Sul letto di morte Alonso Chisciano (non più Don Chisciotte), con la lucidità che spesso accompagna gli ultimi istanti, dice rivolgendosi a Sancho Panza: “Io fui pazzo ed ora son savio. Fui Don Chisciotte della Mancia ed ora, come ho detto, sono Alonso Chisciano…: possano il mio pentimento e la mia sincerità rendermi la stima che si aveva un tempo di me…”.

Le parole di Grillo su Giuseppi “…privo di visione politica e capacità manageriale e autore di uno statuto politico seicentesco” sembrano un epitaffio funebre che si aggiunge ad un giudizio politico. Certo, il Grillo di oggi è un uomo fiaccato dall’implosione del Movimento da lui creato, dalle vicende giudiziarie di suo figlio che si stanno facendo complicate, dalla disistima nei confronti di un ceto politico da lui arruolato con il “todos caballeros” di qualche click informatico che ha certificato nel tempo la propria incompetenza giuridico amministrativa ed istituzionale.

Il riferimento a Cervantes non è casuale. Vi sono nel rapporto tra Grillo e Giuseppi alcuni elementi fondanti il complesso rapporto tra Don Chisciotte e Sancho Panza. L’eroe eponimo di Cervantes (come in parte Grillo) è un visionario nel quale si può scorgere, in una sorta di intuizione anticipatoria, quello che sarà definito il “marxismo gotico” o quello che Benjamin in tempi moderni definirà come organizzazione del pessimismo.

Don Chisciotte (come in parte Grillo) presenta dei caratteri di indubbia modernità. Come brillantemente notato da Diego Fusaro in “Pensare altrimenti”, Alonso Chisciano è inserito in un disagio esistenziale rapportato alla struttura sociale di riferimento e non avendo né gli strumenti concettuali né quelli organizzativi per poter essere un “rivoluzionario aggregativo” con coscienza di classe aliena se stesso in pura individualità in quella concezione di “cavalleria errante” superiorem non recognoscentes.

Il cavaliere errante è fuori da ogni modello organizzativo e di subordinazione strutturale: risponde solo a Dio (in senso trascendente) e alla propria Dama (in pura idealizzazione) in senso mondano. Il cavaliere errante è sostanzialmente una “solitudine”, una monade che trova giustificazione nel proprio se “sein” nell’essere “gettato in situazione”: situazione priva di qualunque scopo economico-pratico e votata al più puro idealismo.

Il dramma dell’eroe di Cervantes, e la sua grandezza, sta nell’essere consapevole che le vie d’uscita puramente individuali, al dominio della nascente religione del capitale, sono un’illusione e una via d’uscita comunitaria collettiva e sociale risulta vietata dalla religione del capitale medesimo.

Don Chisciotte rifiuta il denaro: nella prima parte del romanzo (la prima sortita dell’ingegnoso Hidalgo) confessa candidamente all’Oste, che lo interrogava sul punto, di non possedere denaro né di aver mai saputo che i cavalieri erranti ne possedessero. Anche nella seconda parte del romanzo, quando intende compensare lo scudiero Panza per i suoi servigi, firma quell’esilarante “assegno d’asini”: e cioè un assegno – o cambiale – con il quale paga il suo debito allo scudiero Panza con i puledri che sarebbero stati per nascere da una sua asina gravida.

Il girovagare “on the road” di Don Chisciotte in una struttura esistenziale “indipendente” dal dominio del denaro – capitale sembra anticipare le tesi di Erich Unger sull’uscita dal capitalismo attraverso la migrazione o spostamento: Don Chisciotte fuoriesce dalla sfera d’azione del denaro dal momento che all’interno della sua struttura esso è in grado di riassorbire ogni opposizione.

Sancho Panza, viceversa, è un uomo del popolo (come Giuseppi si autodefinisce “avvocato del popolo”). Non comprende fino in fondo il linguaggio del cavaliere di cui si è fatto, più o meno volontariamente, scudiero. E’ attratto dalla promessa fattagli da parte di Don Chisciotte di divenire proprietario di un'”isla”. Nel castigliano dell’epoca il termine isla poteva significare sia isola che armadio pieno di vivande. E, per i lettori di Cervantes, stante la prosaicità del personaggio è topico il divertimento sull’ambiguità dell’interpretazione.

Ma la prosaicità dello scudiero è una prosaicità da “res dura” feroce, a tratti cattiva, inumana, assolutamente refrattaria a quelle tendenze che animano la pazzia di Alonso Chisciano. Quando, sia pure a seguito di una burla, Sancho Panza viene investito nel ruolo di governatore di un’isla, il suo primo pensiero è quello di mettere “a profitto” il possedimento attraverso la vendita degli abitanti (uomini, donne e bambini) al fine di ricavarne una rendita.

Sotto il profilo della morale e dell’economia il distacco tra i due personaggi nella loro tragicità economica esistenziale non potrebbe essere più grande. E oggi va dato atto a Grillo, come fu per Alonso Chisciano, che aver visto nel proprio scudiero un “governatore” fosse stato frutto di follia. Ma l’importante, politicamente, è dopo aver vissuto da folle morir “savio”.

Certo, i fendenti di Giuseppi su Grillo son pesanti da rompere le ossa (come spesso successe a Don Chisciotte). Ma, per dirla con Bartolomeo, Pinelli “di Don Chisciotte fracassate ha l’ossa un villano, un bastone, una percossa; maledice piangendo in modo strano la percossa, il bastone ed il villano”.