Guido Piovene ci ha insegnato perché l’animo umano è in preda alle “Furie”
15 Novembre 2009
Probabilmente è un caso, ma sarebbe bello che non lo fosse. Nell’anno del 35esimo anniversario della morte di Guido Piovene, infatti, la casa editrice Aragno rimanda in stampa Le Furie, romanzo del giornalista e scrittore vicentino uscito nel 1963 dopo 14 anni di silenzio. Gli anni in cui Piovene – già famoso per le sue corrispondenze da Londra e Parigi per il Corriere della Sera, nonché per la sua opera narrativa forse più bella, Lettere di una novizia (1941), e per lo splendido e impareggiabile reportage Viaggio in Italia (1957) – dovette smaltire la “colpa” di essere stato fascista tra i fascisti e maturare la propria nemesi storico-psicologica, a petto di chi iniziava a chiedergli il conto del proprio passato.
Il passato dal quale le Furie riemergono, sempre. Perché, man mano che si cerca, “il bisogno di verità, quando si insedia in noi, somiglia al fuoco ma anche al cancro”. Si chetano, le Furie, ma sono pronte a riesplodere voraci e violente nel momento della debolezza o forse nella progressione di quella lucida consapevolezza in cui tutto pare aggiustarsi. E, per vero, in Piovene nulla si aggiusta: i pezzi di vita non sono caselle di un domino, ma coriandoli incendiati che si spargono nell’animo ustionandolo, non certo lenendole le piaghe.
Così il ritorno a Vicenza e una passeggiata sui Colli Berici, “à rebours” tra gli spazi e i luoghi di quel presente, sono il pretesto per una scorribanda fra i tempi e le memorie del passato, cristallizzate nell’atmosfera ghiacciata dell’anima e pronte a riaccendersi come tizzoni, per far uscire dalle zone d’ombra i fantasmi asfissianti di un’esistenza. Una catena di fotogrammi emergenti dal grigiore della bobina che li sviluppa, volta a volta che l’autore proustianamente li mette a fuoco toccandoli con il potere del ricordo (e della penna).
Nello scorrere delle immagini dei principali protagonisti, Teresa, Angela, Antonio, Carla, padre Kramer, si alzano i veli di un cattolicesimo esteriore, quasi senza Dio: vizi passati per virtù, ferocia parossistica mascherata nella più totale carità, fede che diventa feticismo, libido assurta a santità, rimorsi assorbiti nella volontà di sopraffazione. Stati d’animo e Furie, insomma, che se “per alcuni aspetti sono diverse, per altri invece si assomigliano, come ritratti della stessa persona fatti dallo stesso pittore che cambi umore nel guardarla”. E le Furie dei personaggi visionari si intrecciano, e a tratti lasciano spazio, alle Furie dei momenti vissuti: la guerra di Spagna seguita sul fronte franchista, l’amicizia tradita con il filosofo Eugenio Colorni (Ernesto, nel libro), gli inizi nel mondo cinico dei giornali. A dispetto della sideralità del contesto, un invito a non fermare l’istinto creativo. Perché “bisogna creare per essere, l’alternativa sono le Furie o il niente…solo nella creazione gli uomini possono incontrarsi, cioè diventare anime…ogni altra pretesa è schiavitù o violenza”.
“Esplode”, seppur sotto la coltre della cenere, un romanzo-confessione soffocato e soffocante, metafisico quanto può esserlo una vita fatta per essere soverchiati, in cui campeggiano nevrastenia e senso di colpa, in una ossessiva tensione religiosa verso la redenzione, mai raggiunta né raggiungibile. Una via crucis che non riesce a pervenire al suo salvifico Golgota. Le Furie, pur nell’altezza di pagine che richiamano Agostino e Proust, Freud e Mauriac, consegna Piovene all’Olimpo, spesso e troppo dimenticato, dei maggiori giornalisti italiani ed europei, senza però inserirlo definitivamente nella storia della grande letteratura: non a caso i tratti più travolgenti e sublimi del testo emergono quando l’autore rimembra e narra le vicende politiche e professionali che lo hanno riguardato, coinvolgendo la propria storia personale e intrecciandola a quella culturale, economica e sociale dell’Italia.
Confermandoci la bellezza del Piovene saggista, in cui vive irrisolta l’antinomia della doppia anima di narratore e di cronista, e la seconda prevale sulla prima. Un uomo e un intellettuale anarmonico, Piovene, schierato senza essere impegnato, l’esemplare tipico delle idiosincrasie della provincia veneta del dopoguerra, da un lato trascinata nel turbine della crescita e degli anni del “boom economico”, dall’altra incalzata dal peso dei rimorsi passati e di una morale perbenista e bigotta.
E se il Viaggio in Italia, allora, era stato il percorso “esteriore” di un grande inviato all’interno del tessuto corporeo e viscerale del Belpaese, Le Furie è il viaggio “interiore” vissuto all’esterno delle proprie emozioni da parte di un uomo stretto tra “il diavolo e l’acquasanta”, secondo la felice intuizione di Maurizio Serra, ambasciatore d’Italia, storico e scrittore, nel suo recente saggio Guido Piovene. Il diavolo e l’acquasanta (Liaison Editore). Piovene non è certo solo. Le Furie appartengono a tutti e a ciascuno. Impossibile evitarle. Difficile vincerle. Essenziale almeno saperle riconoscere.