Ha ragione Frattini, Assange non è Robin Hood è un criminale
12 Dicembre 2010
Ad Anna Pintore
Intervenendo sul caso Julian Assange, Carlo Formenti ha scritto di recente sul ‘Corriere della Sera’: «Ciò che colpisce, in questa vicenda, è l’ingenuo stupore che gli utopisti della Rete manifestano di fronte a una verità talmente ovvia da suonare banale: il potere – qualsiasi potere – si basa necessariamente sul segreto: è impossibile governare uno Stato, un partito o un’azienda senza nascondere ai cittadini/dipendenti/militanti una quota più o meno significativa di informazioni. Ma se ciò è vero, l’obiettivo di Assange e dei suoi fan non è rendere il potere più trasparente, bensì distruggerlo». A ben riflettere, però, se si assume un’ottica liberale, il vero paradosso di tutta la vicenda sta nel fatto non ci troviamo dinanzi a una distruzione del potere ma a un suo trasferimento dal locus classico della politica – lo Stato, il governo – a un’assemblea mediatica solo virtualmente planetaria, ma in realtà convocata, attivata, infiammata e (sostanzialmente) manipolata da chi fissa l’ordine del giorno, sulla base delle informazioni-bomba di cui è riuscito a impossessarsi.
Se la libertà liberale esige la protezione della privacy, il diritto a non mettere tutto in piazza, a nascondere al prossimo una parte rilevante della propria esistenza, l’ideale di Assange è l’esatto contrario: la trasparenza totale, il diritto a saper tutto di tutti, in base all’aureo principio giacobino che, se non hai fatto nulla di male, non ti fa paura la casa di vetro. La parola d’ordine è: basta coi panni sporchi che si pretende di lavare in famiglia; apriamo tutti gli armadi e mostriamo al mondo quanti scheletri vi sono riposti. Che panni sporchi e scheletri siano, come le stelle della nota pubblicità di salamini, «milioni di milioni» e che, quindi, non potendosi esporre tutti si è costretti a una selezione necessariamente condizionata dai valori e dalle gerarchie di importanza dell’operatore telematico, e quindi dalle sue opzioni ideologiche,non sembra mettere in crisi le tetragone certezze di chi, come Barbara Spinelli, esalta «Assange, l’informatore a valanga» che fa entrare «una folata d’aria in stanze che mancano di ossigeno».
«Siamo di fronte – scrive Formenti – alla versione postmoderna/digitale dell’utopia anarchica che sogna una società orizzontale e senza gerarchie, quindi senza segreti. Del resto, Assange è un anarchico individualista dichiarato». In realtà, l’articolista, condizionato dal liberalismo libertario ‘all’italiana’, nutrito di spiriti sessantotteschi e assembleari, sembra dimenticare quanto possa essere oppressiva e persecutoria «una società orizzontale e senza gerarchie, quindi senza segreti». Furono società di questo genere che, con le loro ondate di fondamentalismo etico, travolsero la civiltà arabo-ispana, in nome di una ‘democrazia coranica’, espressa dalla Umma, la comunità dei fedeli, che esigeva dai suoi capi una vita integerrima, comportamenti visibili (e, all’occorrenza, censurabili) da tutti i fedeli, un’ascesi intramondana degna dei reggitori della ‘Repubblica’ di Platone.
L’anarchico individualista rivendica il diritto a non avere padroni né in cielo, né in terra, a fuggire la civiltà, a vivere nei boschi come Thoreau, a non essere costretto a uccidere il prossimo per il solo piacere di ‘lor Signori’. Il corsaro di Wikileaks, al contrario, è un fanatico dell’ ‘abbandono sentimentale comunitario’, è uno che vuole mettere a disposizione dell’intero genere umano l’occhio del Grande Fratello. Non si limita a ‘smascherare’ le trame occulte del potere, mobilita e organizza le masse perché gli vengano dietro, perché partecipino con lui al riconoscimento urlato che «il re è nudo».
Il rapporto di potere, comando/obbedienza, è qualcosa di spiacevole e inevitabile a un tempo: nelle democrazie liberali è circoscritto in precisi ambiti istituzionali e sottoposto a limiti invalicabili. Tali limiti saltano quando si proclama la fine della divisione tra governanti e governati e delle menzogne che la tengono in vita nonché l’inizio di un’era in cui l’ accesso universale alle informazioni (con la conseguente rivelazione dei ‘politici maneggi’) delegittima qualsiasi classe politica osi ancora chiedere risorse e sacrifici ai cittadini. Sennonché, se il potere non esiste più da nessuna parte, sommerso dall’indignazione unanime seguita al suo smascheramento, a chi ci si rivolgerà per fare valere diritti soggettivi che la « società orizzontale e senza gerarchie, quindi senza segreti» non è disposta a riconoscere e a tutelare? Se l’azione più diabolica di Satana è far credere di non esistere, il capolavoro della mens totalitaria sta nel far credere che nelle‘forme politiche’ classiche esaltate collettivisti libertari – che temono l’irrigidimento burocratico della Rivoluzione – come la Comune di Parigi o la classica assemblea studentesca si realizzi l’emancipazione dalla tradizione e dal Potere laddove si pongono soltanto le basi del regime totalitario. Che non consente fughe giacché non si fugge dal conquistato ‘Regno della Libertà’ e se qualcuno tenta di farlo è perché in lui non è ancora nato l’«uomo nuovo» e quindi non deve poi lamentarsi se «costretto a essere libero», secondo la formula dell’antenato della democrazia totalitaria, Jean-Jacques Rousseau.
Forse avevano ragione i vecchi dialettici: non c’è valore che non si rovesci nel suo opposto quando diventa unico e assoluto. Se si pretende di ‘giocare a carte scoperte’, significa che non si vogliono tutelare i diritti dei giocatori bensì mandare all’aria il tavolo da gioco. Una competizione – sportiva, politica, artistica, bellica – in cui tutto si svolgesse in palcoscenico, davanti agli spettatori, e fossero abolite le quinte teatrali, lungi dal ristabilire l’eguaglianza dei punti di partenza, sancirebbe solo le ‘superiorità naturali’. Se Odisseo dovesse affrontare Polifemo a viso aperto, data l’enorme disparità di forze, il suo destino sarebbe irrimediabilmente segnato: se vince è perché ricorre all’inganno, il civilizzato prevale sul bruto.
Nei fan di Wikileaks – nei firmatari del manifesto ‘per salvare il soldato Assange’ – si avverte il cieco fanatismo di chi pretende di moralizzare la politica senz’essere sfiorato dal sospetto che di morali ce ne sono tante e che il loro ineludibile contrasto si risolve solo con mezzi politici – pacifici in democrazia ,violenti nelle dittature. Ci avviamo verso un tipo di società e di political culture che, dietro le roboanti esaltazioni dei diritti, si sta allontanando sempre più pericolosamente dall’universo liberale che ha reso grande l’Occidente. In parte inconsapevolmente, sta emergendo la profonda ‘innaturalità’ della ‘società aperta’ consistente nella riduzione dell’uomo civilizzato a un «fascio di ruoli» tenuti insieme da un centro, una «persona», che nel relazionarsi agli centri/persone, s’impegna in un agire ‘a responsabilità limitata’. Si tratta di una costruzione umana ‘innaturale’ giacché l’ individuo tende, per istinto, a mettere tutto se stesso in quello che fa laddove si vede ora costretto, se espleta una mansione pubblica o sottoscrive un contratto privato, a dimenticare di essere padre, cattolico, siciliano, berlusconiano etc. per prendere in considerazione solo quanto sta scritto nei ‘codici’ limitatamente a un determinato corso di azioni. E’ qui il vero, drammatico, ‘conflitto delle civiltà’:l’Europa e il mondo atlantico sono accerchiati da ‘culture’ che mal si rassegnano alle divisioni che, per così dire, attraversano l’anima dell’uomo secolarizzato. E nondimeno se si perde il senso di quelle divisioni, si può ben dire che ‘tutto è perduto’per gli eredi di Locke, di Constant, di Mill.
La libertà degli individui, come la sicurezza degli Stati, poggia sulla separazione di etica, diritto, religione e politica. Siamo liberi se, come s’è detto, possiamo svolgere ruoli diversi , appartenere a cerchie sociali autonome e attenerci a codici differenti. Il capitano della nave non dev’essere un boy scout ma un esperto navigatore, gli statisti non sono tenuti alla condotta morale che regola i rapporti tra i parenti e gli amici ma ad esibire la forza del leone e l’astuzia del serpente al fine di garantire ai loro popoli il bene supremo della sicurezza.
Pretendere che i ‘leviatani dalle viscere di bronzo’, come Benedetto Croce definiva gli Stati, si comportino come gentlemen educati a Eton e a Cambridge, vuol dire rimuovere definitivamente quell’autonomia della politica dall’etica che aveva segnato, con Il Principe di Machiavelli, l’entrata nel mondo moderno, col risultato che gli Stati non potrebbero essere più in grado di fare il loro mestiere di ‘guardiani diurni e notturni ma non pertanto le relazioni tra i popoli ne risulterebbero eticizzate. Si prendano le rivelazioni di Wikileaks relative all’esistenza di «un piano Nato per proteggere i tre paesi baltici, Lettonia, Estonia e Lituania, da possibili aggressioni di Mosca». C’è da scandalizzarsi se i paesi che hanno sottoscritto un’alleanza militare si cautelano nell’eventualità di conflitti armati che potrebbero attentare alla sovranità di alcuni contraenti? La violazione del segreto, nell’ipotesi (peraltro improbabile) che la Russia non ne fosse a conoscenza ,quale effetto potrebbe avere se non un’accresciuta presenza militare di Mosca «ai confini con i paesi baltici menzionati» ovvero a un aumento del bilancio della Difesa e a un nuovo contenzioso tra le due grandi superpotenze, l’americana e la russa? L’apertura dell’armadio contribuirebbe alla pace e alla prosperità dei popoli o renderebbe più difficili le relazioni internazionali?
La Spinelli rileva che Wikileaks «getta su Hillary Clinton una luce sgradevole, oscura. Fu lei a indurre molti diplomatici, che pure fanno un mestiere nobile, a indossare una veste affatto diversa: quella della spia, che avvicina subdolamente gli interlocutori (compresi i vertici dell’Onu, compreso Ban Ki-moon) per carpire numeri di carte di credito, codici di carte Frequent Flyer, magari dettagli privati da usare un giorno come pressione o ricatto». L’articolista riconosce, bontà sua, che «non è sotto accusa, qui, la classica ipocrisia del linguaggio e dell’agire diplomatico»:«sotto accusa è l’attività non poco vergognosa di diplomatici degradati a sicofanti». Se avesse visto qualche vecchio film di Alfred Hitchcock, probabilmente non si sarebbe scandalizzata tanto ma se conoscesse la storia europea, e quella italiana, in particolare si sarebbe meravigliata ancor meno.«Dicono che dappertutto si fanno» – ‘ e si sono fatte’, aggiungiamo noi – «cose simili: non consola».
Certo che «non consola» ma se le relazioni internazionali, da che mondo è mondo, richiedono in qualche misura persone – diplomatici o spie ‘ordinarie’ – disposte a fare «il lavoro sporco» e se tale lavoro risulta legato alla sicurezza degli Stati – come potrebbe dimostrarsi in uno sterminato numero di casi – la non rassegnazione dell’«anima bella» lascia il tempo che trova se è soltanto un’«espressione di sentimento» privata, diviene, anche suo malgrado, un fattore di accrescimento del disordine planetario se, in nome del ‘diritto della gente a sapere la verità’, si sente in dovere di far nomi e cognomi di quanti si sporcano le mani, a forza di metterle nella feccia di Romolo.
Probabilmente se la Spinelli si cimentasse con la storia del Risorgimento e venisse a conoscenza delle mene, dei raggiri, dei ricatti di Cavour per indurre Napoleone III a muover guerra all’Austria e i notabili meridionali e l’aristocrazia borbonica (compresa quella di corte) a passare armi e bagagli al Regno di Sardegna in procinto di diventare Regno d’Italia, chiuderebbe i libri inorridita da tanta disinvolta spregiudicatezza, raggiungendo le posizioni di ‘storici’ antirisorgimentali come Angela Pellicciari e Gilberto Oneto appartenenti a un pianeta ideologico distante anni luce dal suo.
Si racconta che un Presidente della Repubblica, antifascista doc, a cena con due prestigiosi storici suoi compagni di partito, dopo aver ascoltato le loro lagnanze sulla democrazia malata del nostro paese, sia sbottato in una confessione: «Ma voi lo sapete cos’abbiamo fatto noi vecchi per l’Italia? Nel referendum istituzionale, la Repubblica aveva perso di poco ma quel gran galantuomo di Umberto II aveva detto subito: una Repubblica può vincere con qualche migliaio di voti in più, la monarchia non lo può, dal momento che ad essa debbono rivolgersi con fiducia tutti i cittadini: un re votato, da poco meno della metà degli Italiani, retrocederebbe a capo-partito. A quel punto, Romita alterò i risultati e la Repubblica venne dichiarata vincente». L’episodio della manipolazione referendaria (sempre che fosse vero ma, Montanelli ne dubitava) potrebbe essere considerato un caso da manuale del conflitto tra etica e diritto, da un lato, e politica, dall’altro. Allora prevalse – a mio avviso, per fortuna – la politica e questo evitò la guerra civile e la spaccatura del paese in due per la quasi certa mobilitazione delle brigate partigiane non disposte ad accettare il verdetto popolare reazionario. Orbene, se, nella logica di Wikileaks, qualche spregiudicata agenzia giornalistica repubblicana avesse fatto conoscere il retroscena del computo dei voti referendari e documentato i brogli, il «fiat iustitia, pereat mundus!» avrebbe dovuto prevalere su ogni altra considerazione anche a rischio di farci precipitare in un baratro di sangue, quale stava vivendo, negli anni tormentati del secondo dopoguerra, la vicina Grecia?
Se si porta a conoscenza dell’opinione pubblica internazionale che in un rapporto diplomatico, fatto pervenire a Washington da Riyād, si legge che il monarca saudita, da una parte, pretende che gli Stati Uniti di schiaccino il serpente iraniano, dall’altra, finanzia i fondamentalisti di Al Qaida, qual è il vantaggio ‘globale’ di questa etica della trasparenza? Certamente i sauditi sanno cosa pensano di loro gli alleati americani e questi sanno che gli altri lo sanno ma, ammesso e non concesso che per non perdere la faccia, i rapporti tra i due alleati si guastino per un certo tempo, quale utile oncreto ne verrà alla pace e all’ordine nel mondo? Se si fa politica attraverso l’etere, non si può eludere l’etica della responsabilità («agendo in un certo modo quali ne saranno le conseguenze?») , se non s’intende fare politica ma solo affermare in assoluto il principio della libertà d’informazione, costi quel che costi, occorre riflettere bene sul pericolo « di portare acqua al multino dei paladini del segreto» come scrive, e questa volta a ragione, Carlo Formenti.
Assange, in realtà, non è il Robin Hood dell’era mediatica, che alle genti svela «di che lagrime grondi e di che sangue» la ragion di Stato, ma un personaggio che sembra uscito dai romanzi di Ian Fleming.E’ il nuovo Dr. No della Spectre telematica. Frattini ha ragione: sul piano della politica, è un criminale che va messo in condizione di non nuocere.