Hariri sospetta Damasco per la morte di Mughniyeh

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Hariri sospetta Damasco per la morte di Mughniyeh

14 Febbraio 2008

“Il mondo è un posto migliore senza di lui”: le secche parole del  portavoce del dipartimento di Stato americano, Sean McCormack, sono assolutamente condivisibili. Ma la morte violenta di Imad Mughniyeh, ucciso da un’autobomba ieri notte a Damasco, apre anche numerosi interrogativi. Il primo è cruciale: chi ha ucciso il numero due di Hezbollah, il terrorista più importante del mondo islamico dopo Osama Bin Laden?

Oggi, durante una cerimonia in ricordo del premier libanese, Rafik
Hariri, il figlio Saad Hariri e il leader druso, Jumblatt, hanno
lasciato intendere di ritenere che il regime siriano e Hezbollah stesso
siano implicati nella morte di Mughniyeh. Un’ipotesi va certamente
tenuta in considerazione.

L’attentato è avvenuto a Damasco, città super blindata, e Mughniyeh non era certo un obiettivo semplice da colpire. Inseguito per 22 anni dai servizi segreti di mezzo mondo, il capo militare di Hezbollah si era fatto almeno due plastiche al viso ed era protetto non solo dai suoi scherani, non solo da Hezbollah, non solo dalle forze di sicurezza siriane, ma anche dai Pasdaran iraniani di cui era il fondamentale snodo di comando in tutta la strategia di attacco in Medio Oriente e nel mondo.

Israele, stranamente, ha subito negato ogni responsabilità nella sua morte (ovviamente subito attribuitagli da Hezbollah, dalla Siria e soprattutto dall’Iran), con una smentita che non ha molti precedenti, perché Israele ha sempre rivendicato la piena legittimità, anche giuridica e di diritto, dei suoi omicidi mirati e si è ben guardata dallo smentire uccisioni parimenti clamorose, come quella dello sheikh Yassim, il fondatore e leader di Hamas, e di un paio di suoi successori.

Può darsi, naturalmente, che la smentita israeliana sia dettata da strane motivazioni del governo di Gerusalemme, ma non si può trascurare il fatto che questa clamorosa morte e questo strano attentato arrivano nel bel mezzo di una crisi che sta scuotendo Hezbollah, riflesso di una ben più importante crisi che travaglia i vertici politici e militari di Teheran.

Il 12 dicembre 2007, l’autorevole quotidiano arabo Asharq al Awsat, stampato a Londra, ha infatti sostenuto che la Guida della Rivoluzione iraniana in persona, Khamenei, aveva tolto allo stesso Hassan Nasrallah ogni responsabilità di comando militare in Libano e le aveva passate al suo vice, lo sheikh Naim Qassim. E’ interessante oggi ricordare le motivazioni di quella rimozione: una ispezione accurata effettuata da alti Pasdaran iraniani nel sud del Libano aveva verificato una situazione assolutamente non soddisfacente di ridislocazione di armamenti e uomini sul territorio del sud Libano e gravi carenze di comando.

L’apparato militare di Hezbollah, di cui Mughniyeh era la massima autorità fuori dal Libano, è dunque attraversato da forti tensioni e  – come si sa – molto spesso in passato queste hanno portato a episodi come l’attentato di ieri a Damasco.

Sia come sia, il colpo per Hezbollah è fortissimo, soprattutto dal punto di vista del prestigio. Mughniyeh era un obiettivo assolutamente impossibile da colpire (al pari dell’uccisione del capo del Kgb a Mosca ad opera degli americani nella Mosca staliniana dei primi anni cinquanta), ma è stato colpito.

Nessun leader del mondo terrorista islamico sciita si può oggi sentire al sicuro. Forse dai propri stessi amici.

Noto come il Camaleonte per le sue capacità trasformiste, Mughniyeh ha legato il suo nome a una quindicina dei più eclatanti attentati compiuti a partire dai primi anni ottanta: gli attacchi in Libano contro l’ambasciata Usa, una caserma dei marines e una dei paràs francesi tra il 1983 e il 1984 (362 vittime), il dirottamento di un aereo della Twa in linea tra Roma e Atene nel 1985, le esplosioni di Buenos Aires contro l’ambasciata israeliana nel 1992 (29 morti) e contro la sede dell’associazione argentino-israeliana nel 1994 (85 vittime).

Mughniyeh, era il nome di battaglia di Hajj Radwan, nato nel 1962 da una famiglia di ayatollah sciiti del sud del Libano. Dopo essersi unito, a 15 anni, alle milizie palestinesi di Al Fatah, è stato uno dei fondatori del movimento sciita Hezbollah. Rifugiatosi per anni in Iran per scappare dall’Interpol europea, dal 1986 in poi è riuscito a sfuggire a numerosi tentativi di cattura o uccisione da parte dei servizi segreti americani e israeliani, che non hanno invece risparmiato i suoi due fratelli, Jihad e Fuad, eliminati rispettivamente nel 1985 e nel 1994. Indicato come ufficiale di collegamento tra Hezbollah e i servizi segreti iraniani, per molti sarebbe anche il regista dell’uccisione a Beirut nel 1985 del capo della Cia in Medio Oriente, William Francis Buckley, e della fornitura di armi a Teheran in cambio della liberazione di ostaggi occidentali in Libano (vicenda che dette vita allo scandalo Iran-Contras del 1987).

Nel corso degli anni, il Camaleonte è stato anche additato da fonti di intelligence e di stampa quale anello di congiunzione tra i servizi iraniani e la rete di Bin Laden, o tra Hezbollah e Al Qaida. Sarebbe quindi stato coinvolto in varia misura negli attentati del 1996 a Khobar, in Arabia Saudita, e in quelli del 1998 contro le ambasciate Usa in Kenya e Tanzania, nell’attacco nel 2000 contro il cacciatorpediniere americano Cole nello Yemen, nell’invio di armi all’Autorità nazionale palestinese sequestrate dall’esercito israeliano nel 2002 sulla nave Karine-A. Presente dal 2001 nella lista Fbi dei 22 terroristi più ricercati al mondo, è stato chiamato in causa anche quale mente dell’attacco nel novembre 2003 contro la base militare di Nassiriya, in Iraq, che causò la morte di 19 italiani; degli attentati a Istanbul, sempre nell’autunno 2003, contro le sinagoghe, il consolato e una banca britannici.