Hollywood festeggia “The Hurt Locker” ma dimentica i veterani dell’Iraq

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Hollywood festeggia “The Hurt Locker” ma dimentica i veterani dell’Iraq

07 Marzo 2010

L’uomo che ha ispirato il film culto “The Hurt Locker” cita in giudizio per frode la casa di produzione e  lo sceneggiatore, a pochi giorni dalla magica notte degli Oscar. “Sono stato truffato. E’ stata rubata la mia storia”, dichiara al Los Angeles Times. Lui è il Sergente Jeffrey S. Sarver, ma tutti lo conoscono come “L’uomo dall’abito esplosivo”, dal titolo dell’articolo uscito sul magazine Playboy nel 2005. E’ in quell’occasione che si sentì parlare  per la prima volta del sergente Sarver negli States e la sua storia divenne subito un mito.

In quell’articolo, Mark Boal, reporter e futuro sceneggiatore del film sotto accusa, anticipa il suo soggetto al pubblico: raccontare la vita di un artificiere a Baghdad, marine degli Stati Uniti d’America. Un eroe sospeso tra ragione e follia, che ogni giorno gioca a dadi con la morte e che ne esce interiormente dilaniato, salvando la vita dei suoi compagni quasi fosse una routine.

Boal è un giornalista di quelli tosti. Per qualche tempo, nel 2004, ha lavorato in stretto contatto con l’unità di Sarver, giù in Iraq. Lo studiato bene e ha abbastanza esperienza per sapere che l’uomo delle bombe potrebbe adattarsi magicamente al cinema. Un protagonista perfetto. Sa anche di poter convincere la Hollywood che conta, quella delle grandi produzioni e del walk of fame, per intenderci. Non ci riesce ma il film si fa comunque: produzione indipendente. Un enorme successo, la pellicola riceve grandi apprezzamenti dalla critica e approda agli Oscar 2010 con ben nove candidature.

Si sa che il cinema hollywoodiano è un mondo tradizionalmente sensibile agli orrori della guerra e orgogliosamente pacifista, ma il discorso cambia quando si parla di lavoro e di business. Allora scompare qualsiasi forma di etica e filantropia, e il tempo diventa denaro. I ritmi cardiaci del profitto guidano ogni cosa e nessuno può sfuggire al meccanismo che si è messo in moto, neppure un eroe di guerra. Un uomo che ha rischiato ripetutamente la vita per il suo Paese.

Sarver viene a conoscenza dell’idea di Boal solo dopo aver visto il film. Si rende conto che quel Will James, o Blaster One che appare nello schermo, in realtà è lui. Quella è la sua storia. Quello era il suo soprannome in Iraq. Impossibile sbagliare. Ma il film non prevede alcun riconoscimento economico per Sarver e il suo nome non appare neppure fra i titoli di coda. Così il sergente decide di reagire. Intervistato, dichiara “sarei stato felice di offrire la mia consulenza, ma nessuno me l’ha mai chiesta”. Cerca per mesi un contatto diretto con la produzione, la Summit Entertainment, e con il suo boss, Nicholas Chartier, ma questi nega perfino di conoscerlo. Sul Los Angeles Times, Boal interviene per precisare che “durante la mia permanenza in Iraq, ho parlato con più di cento soldati e ho solo rimescolato ciò che avevo appreso, in modo da renderlo il più autentico possibile”.

Il sergente Sarver è una persona semplice, viene dal New Jersey e si è da poco trasferito a Clarksville, in Tennessee. Non ama i riflettori e non ha fame di celebrità, ma intende difendere il proprio nome e la sua onorabilità. Ha un alto senso del dovere, che gli è stato inculcato dalla madre, una donna che non lo ha mai tradito e lo appoggia anche in questa battaglia. Sarver aveva creduto che bastasse una semplice stretta di mano per chiudere un accordo fra gentiluomini, proteggendo la sua storia e la sua vita privata. Invece si è ritrovato, solo, a combattere un conflitto non convenzionale, dove l’arma del nemico è il luccichio ipocrita di una macchina da presa e i campi di battaglia le fredde aule di un tribunale. Hollywood ha dimenticato questo veterano dell’Iraq.