I 4 motivi per cui la sinistra riesce solo a distruggere (il Cav.) e non a costruire

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I 4 motivi per cui la sinistra riesce solo a distruggere (il Cav.) e non a costruire

07 Novembre 2011

Piero Ostellino, il più spregiudicato (e per questo il più simpatico) dei ‘quattro gatti liberali’ che ancora circolano in Italia, nei suoi articoli sul ‘Corriere della Sera’, fa un ragionamento tanto semplice da apparire scontato se fossimo un paese normale. Lo riassumo con parole mie: «il Cavaliere ha promesso una ‘rivoluzione liberale’ di cui non s’è vista traccia in nessun settore dell’economia, dell’amministrazione pubblica, della politica nazionale: è giusto, pertanto, che si ritiri in buon ordine. Non si vede, però, quanti siano in grado di realizzare le riforme da lui promesse e le liberalizzazioni che l’Europa ci chiede, dal momento che i candidati alla successione – e gli stessi poteri forti che li sostengono – sono divisi su tutto». E’ un discorso che non fa una grinza, come si suol dire. Potrebbe essere interessante, però, individuare la natura e la genesi di uno ‘stile di pensiero’ – quello delle sinistre, così lontano dal buon senso e dal senso comune – che impegna a «mettersi assieme», soprattutto, per «demolire» anche quando non si ha alcuna idea condivisa sulla casa da «ricostruire», dopo aver abbattuto quella brutta e cadente. Sul piano del divertissement intellettuale, ho individuato quattro possibili spiegazioni.

La prima ci riporta alla storia nazionale, dal Risorgimento alla Resistenza. Per i patrioti delle guerre di indipendenza, la cacciata dei ‘tiranni’ (stranieri – l’Austria e i suoi satelliti; o interni – il Papa e il Borbone) era l’obiettivo prioritario che imponeva di superare ogni divergenza relativa ai regimi politici e alle forme di Stato che si sarebbero dovute instaurare nel suolo del bel paese rinato alla libertà. L’eroe repubblicano, Giuseppe Garibaldi, che fa propria la divisa "Italia e Vittorio Emanuele" è l’espressione più alta e più nobile della consapevolezza di un compromesso necessario tra uomini e progetti politici spesso lontani. «Alla dinastia sabauda, riconoscerà il vecchio generale, senza dimettermi dei miei convincimenti repubblicani, l’Italia deve due fatti. Il primo è  l’organizzazione d’un esercito che, ben guidato, varrà sempre qualunque altro esercito a parità di numero. Il secondo che, identificando l’unità nazionale coll’ambizione dinastica, l’indipendenza patria ha potuto attuarsi più presto e più facilmente.» Del resto, già Alessandro Manzoni adombrava nel brutto verso che, a suo dire, rappresentava il sacrificio da lui fatto per la Patria, il primato del «mettersi insieme» rispetto al «cosa fare dopo»: ’liberi non sarem se non siam uni’.

La lotta contro la dittatura fascista, meno di un secolo dopo, avrebbe riproposto lo stesso imperativo: l’essenziale è liberarsi di Mussolini, poi vedremo il da farsi. In tal modo, uomini e partiti diversi, portatori di ideologie incompatibili, si rassegnarono, per diversi mesi, a un matrimonio di convenienza che tutti – tranne forse gli azionisti – intendevano ‘a termine’. Sennonché l’union sacrée contro un pericolo mortale (lo straniero, il tiranno), da momento eccezionale nella vita di una nazione, in Italia, è divenuta una risorsa simbolica alla quale fanno ricorso spesso e volentieri formazioni politiche che, incapaci di diventare maggioranze, chiedono ai loro naturali avversari ideologici di unirsi a loro nella guerra santa contro il (sempre) nuovo «Annibale alle porte». Dove Annibale possono essere le forze oscure della reazione capitalistica, il clericofascismo in agguato e oggi il Cavaliere, sintesi di tutti i mali nazionali (dalla corruzione personale all’adulterazione del senso dello Stato).

Accanto a questa spiegazione ‘storica’, però, ce n’è un’altra riconducibile a un’antropologia rivoluzionaria che è, un po’, il filo rosso che, negli ultimi tre secoli, ha collegato tutti i movimenti di sinistra e genericamente progressisti. E’ l’imperativo che Lenin, nel 1923, attribuiva a Bonaparte:«Napoleone, se ben ricordo, scrisse "On s’engage et puis… on voit". Liberamente tradotto, ciò significa: Prima bisogna impegnarsi in un combattimento serio e poi si vedrà.». E’ l’«ottimismo della volontà» sostenuto dall’incrollabile fede che il nuovo nasce, quasi spontaneamente, sulle rovine del vecchio e che solo abbattendo gli idoli antichi, «gli dei falsi e bugiardi», farà la sua apparizione il vero Dio, del quale non si deve perder tempo a cercare di comprendere i disegni – sarebbe come, per dirla col vecchio Marx, prescrivere ricette per la cucina dell’avvenire.

Il ‘superato’ Benedetto Croce parlava in proposito di attivismo e nel 1932 ammoniva che se si toglie alla libertà « la sua anima morale, se la si distacca dal passato e dalla sua veneranda tradizione; se alla continua creazione di nuove forme che essa richiede si toglie il valore oggettivo di tal creazione |…| non rimane se non il fare per il fare, il distruggere per il distruggere l’innovare per l’innovare, la lotta per la lotta |…| e ne viene fuori l’’attivismo’. Il quale è, dunque, in questa traduzione e riduzione e triste parodia che in termini materialistici compie di un ideale etico, sostanzialmente una perversione dell’amore per la libertà, un culto del diavolo messo al posto di Dio, e che pure è un culto, la celebrazione di una messa nera, ma che pure è una messa». Di questo abito mentale si rivede, periodicamente, qualche qualche significativa reviviscenza. Si pensi agli slogan del ’68: «Siamo realisti, pretendiamo l’impossibile», «l’immaginazione al potere» etc.. Nelle assemblee studentesche degli anni della contestazione, spirava un’aura decisamente anti-istituzionale, il sospetto che ogni tipo di organizzazione nella battaglia contro la società unidimensionale (leggi: capitalistica) riproponesse capi e seguaci, privilegi, da un lato, e sacrifici, dall’altro. Il «movimento» contro le «istituzioni», per riprendere i termini di un saggio ormai classico di Francesco Alberoni! O meglio la distruzione creativa al posto del tentativo insensato di prefigurare le forme che avrebbe dovuto assumere il mondo nuovo scaturito dalla «rivolta contro il potere».

Gli avversari del Cavaliere, attualmente, non presumono certo tanto e, oltretutto, appartengono a culture politiche per lo più immuni dall’attivismo ma qualcosa è rimasto in loro di tale ‘vizietto’ del cuore e della mente: la fiducia incrollabile che, estirpato il tumore berlusconiano, il corpo ancor sano della nazione tornerà a rifiorire in virtù del movimento cui è stato sottoposto.

La terza spiegazione, accanto a quelle storica e antropologica, sta nella religione degli italiani, ovvero in una certa ‘pratica’ del cattolicesimo vissuto come ‘integralismo’, eticizzazione integrale della politica. Non è questa la sede per ritornare sulla vexata quaestio dei rapporti tra politica e morale e sulla inevitabile perdita di libertà prodotta sia dalla politicizzazione dell’etica (è morale ciò che fa l’interesse dello Stato, del partito, del movimento etc.) sia dall’eticizzazione della politica (il potere temporale deve sottomettersi a quello spirituale e lo Stato porsi al servizio del ‘bene comune’ qual è inteso dalla comunità dei credenti). Vorrei richiamare, invece, l’attenzione sull’«uso politico» – che non significa affatto in mala fede – della bella espressione ‘gli uomini di buona volontà’ che il Vangelo pone sulla bocca degli angeli festanti che annunziano ai pastori la nascita Gesù: «Gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus bonæ voluntatis».(Luca 2,14). Per non pochi cattolici, specialmente per i membri del clero, è con la «buona volontà» che si risolvono tutti i problemi del vivere collettivo e delle singole esistenze individuali. Dietro questa ‘forma mentis’ c’è l’idea che ogni appassionante questione sociale possa venir raffreddata se ci si siede attorno a un tavolo e si cerca insieme «come uscirne», animati da sentimenti di disinteresse e di disponibilità al dialogo e al confronto: i cuori buoni, immancabilmente, metteranno in moto anche i cervelli più difformi, portandoli ad accordarsi sulla linea di azione ispirata al valore naturaliter più elevato e più comprensivo. E’ assente, in una parte cospicua dell’universo cattolico, la consapevolezza tragica  – propria del cristianesimo protestante – che talora i valori sono incompatibili e che «gli uomini di buona volontà» finiscono per ritrovarsi su opposte barricate proprio per aver preso terribilmente sul serio i dettami della loro coscienza. Se il gelido rigorismo è il rischio degli uni, la faciloneria è il rischio degli altri. Quest’ultima si traduce in un’attitudine al ‘compromesso’, costantemente protesa, nel confronto tra parti sociale e partiti politici, a salvare capra e cavoli, senza troppo preoccuparsi delle conseguenze che ne deriveranno a quanti non sono stati invitati al tavolo dell’embrassons-nous.

 E’ anche in virtù di questa caratteristica dell’anima nazionale, trasmessa, col passar del tempo, dai cattolici ai laici, che gli «uomini di buona volontà» – le persone oneste e perbene – sono chiamati a prendere atto che il Cavaliere è la quintessenza del marcio in politica e che, indipendentemente dall’essere di destra e di sinistra, conservatori o progressisti, filoccidentali o filorientali, quanti hanno ‘cuore’ debbono rimboccarsi le maniche per ripulire le stalle d’Augia della comunità nazionale. Portato a termine questo compito, sarà ancora la buona volontà a farli accordare sui modi di ricostruire culturalmente e moralmente un paese sull’orlo del baratro.

La quarta spiegazione, senz’altro quella meno ‘nobile’, non ha nulla a che vedere né con la storia, né con l’antropologia politica, né con la religione, bensì con quello che potrebbe definirsi l’eterno «machiavellismo» italico. In sostanza, si tratta di questo: in una democrazia esigente – com’è sempre stata la nostra fin dai primordi – la vita e il benessere degli individui e dei gruppi sociali sono legati all’azione, o all’inazione dei governi: se non si trova un lavoro e un tetto (soddisfacenti), la causa non sta in una sfavorevole congiuntura economica né, tanto meno nella mancanza di capacità adeguate e spirito d’iniziativa nei singoli individui ma nell’egoismo di classi dirigenti che pensano soltanto al proprio ‘particulare’ (v. i ‘forchettoni’ democristiani nella propaganda comunista degli anni ’50). Non è certo questo lo spirito della democrazia che Tocqueville aveva visto all’opera negli Stati Uniti negli anni trenta del XIX secolo. Allora come in seguito, ‘essere esigenti’, per i cittadini della democrazia liberale, significa essere virtuosi ma solo se l’ambito delle pretese è strettamente limitato al più rigoroso rispetto delle leggi e degli ordinamenti vigenti da parte dei governanti. Ciò comporta, innanzitutto, il rispetto dei codici che regolano le ‘forme sociali’ sottratte alle competenze legislative dei Parlamenti e alla competizione dei partiti e, quindi, la rinuncia a far valere dinanzi allo Stato (alla sua amministrazione, ai suoi tribunali) pretese e bisogni ai quali il potere politico non potrebbe venire incontro se non estendendo pericolosamente la sua presa e il suo controllo sulla società civile.

 Nei paesi in cui stenta a crescere la pianta liberale, invece, i cittadini in difficoltà non chiedono «più libertà» – ad esempio, di ‘mettersi in proprio’ senza dover essere penalizzati dalle trafile burocratiche prima e da un’esosa fiscalità dopo – ma «più ‘diritti’» ovvero più limitazioni delle libertà e delle risorse materiali possedute dagli altri, più fortunati, o per merito proprio o per condizione familiare. Se imprenditori, questi ultimi, debbono essere costretti, al limite, a produrre anche in assenza di profitti (v. certe vecchie sentenze dei pretori d’assalto), se genericamente benestanti, debbono rinunciare attraverso la fiscalità, a una parte più o meno consistente dei loro redditi (si pensi che per l’antiliberista J. M. Keynes già il 12% era un esproprio!). Questo ‘senso comune’ così diffuso in Italia, per cui tanto ci si aspetta da chi tanto si disistima–lo Stato, appunto–, rende più difficili le politiche di ‘lacrime e sangue’ che, in certi momenti congiunturali, gli stati sono costretti ad adottare: anche a costo di far mancare i sostegni che una equa politica sociale, ormai di casa anche nei paesi più aperti dall’economia di mercato, riserva alle vittime dei cicli economici. Se a promuovere quelle politiche di sacrifici è un governo di centro-destra, si rischia la rivolta sociale, eppure qualcuno dovrà assumersene l’onere. A questo punto, in una rilevante sezione dell’establishment – i veri ‘poteri forti’– scatta la sindrome machiavelliana: l’unico modo per stringere i cordoni della borsa, senza esporsi a crisi di governo suscettibili di trasformarsi in crisi di regime, è quello di affidare alla sinistra l’ingrato compito di togliere le castagne dal fuoco per conto di ceti sociali intenzionati a non perdere del tutto l’ancoraggio del paese all’Europa e all’Occidente capitalisti.

 Insomma una politica di destra, in un paese democratico ma non liberale, può essere digerita solo se a farsene carico sono partiti progressisti, che riscuotano, in qualche modo, la fiducia delle masse. Questo disegno, però, non può venir dato in pasto al pubblico giacché provocherebbe un ‘rompete le fila’ nell’elettorato tradizionale della sinistra. Non resta allora che favorire incontri tra gli oppositori del Cavaliere, per così dire, ‘a scatola chiusa’: se si dice chiaramente al popolo postcomunista che cosa s’intende fare una volta al governo si rischia una frammentazione ancora più lacerante di quella attuale e, inoltre, si è costretti a registrare che, ad esempio, non sono molte le misure di risanamento finanziario sui quali è possibile l’accordo degli uomini della nuova alleanza. Per concludere, a Palazzo Chigi si deve entrare a braccetto senza porsi, per il momento, il problema della compatibilità tra crescita e competitività, da un lato e spesa pubblica e pressione fiscale dall’altro. On s’engage, puis on verra.