“I am Spartacus!”: Kirk Douglas e il maccartismo

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“I am Spartacus!”: Kirk Douglas e il maccartismo

08 Agosto 2012

Il Novecento è stato il secolo americano. Ricco di luci, alcune sin troppo splendenti. Ma anche di ombre. Una di queste è stata il maccartismo, figlio degenere della guerra fredda. Il senatore repubblicano Joseph McCarthy cavalcò in maniera spregiudicata le paure degli americani per il pericolo comunista.

Anche l’ovattata, lussuosa e protetta comunità hollywoodiana fu investita dal ciclone maccartista. Ci furono episodi di grande slancio morale, e piccole meschinerie. Per un Gary Cooper che dimostrò di essere quello che appariva sullo schermo, un uomo vero, ci fu un Elia Kazan che dimostrò di essere l’esatto contrario. Ma così sono gli uomini: deboli o coraggiosi.

Nel mirino della commissione per le attività anti-americane finirono stelle di prima grandezza, come Charlie Chaplin; e personalità di secondo piano, note solo agli addetti ai lavori, come lo sceneggiatore Donald Trumbo. Egli finì nella famosa lista dei dieci (la “blacklist”). Gli fu impedito di lavorare, pur se continuò a scrivere per il cinema, sotto falso nome. Nel 1959 Kirk Douglas lo volle quale sceneggiatore di “Spartacus”, del quale era attore protagonista (nelle vesti del gladiatore ribelle) e soprattutto produttore. Douglas si trovava al vertice della carriera. Negli anni Cinquanta aveva lavorato con Michael Curtiz, Raoul Walsh, Billy Wilder, Howard Hawks, Vincente Minnelli, King Vidor. Il meglio del cinema classico hollywoodiano.

Alla veneranda età di 96 anni (li compirà il prossimo 9 dicembre) Kirk Douglas ha pubblicato un libro di memorie, che già nel titolo spiega tutto: “I Am Spartacus! Making a Film, Breaking the Blacklist” (Open Road, New York, p. 242, con una presentazione di George Clooney). Girare un film e spezzare le catene della “lista nera”. Il primo aspetto è indiscutibile. Senza la testarda volontà di Douglas, assistito dalla seconda moglie, la produttrice di origine tedesca Ann Buyders, “Spartacus” non avrebbe mai visto la luce. Si può discutere molto, invece, sul fatto che abbia infranto le maglie della sorveglianza anti-comunista.

Nel 1959 McCarthy era ormai uscito di scena. Quando il film venne presentato in anteprima a New York, il 7 ottobre 1960, lo scontro politico per la conquista della presidenza degli Stati Uniti tra il democratico John F. Kennedy e il repubblicano Richard Nixon, era alle ultime battute. Ancora oggi “Spartacus” viene ricordato come il film kennediano che incrociò le spade al botteghino con il nixoniano “La battaglia di Alamo”, diretto, prodotto e interpretato da John Wayne. Il film (progressista) della lotta per la libertà degli schiavi contro l’onnipotente esercito di Roma; e il film (conservatore) della lotta per la libertà di irregolari americani contro l’onnipotente esercito spagnolo comandato dal Napoleone del West, il generale Antonio López de Santa Ana.

Douglas nelle memorie rivendica la fatica costatagli nel battere le resistenze per affidare la sceneggiatura a Trumbo (il cui nome nei titoli comparirà solo successivamente). E non gli si può che dare atto. Nel racconto si parte dalle vicissitudini di Trumbo, cominciate nel 1947. L’arresto, l’espatrio in Messico. Ma il vero interesse dei ricordi di Douglas sta negli aspetti produttivi. Sono molti gli attori che voleva scritturare: Yul Brynner, Anthony Quinn, Burt Lancaster, Liz Taylor. Per la regia si pensava a George Stevens, o a William Wyler, autore del mitico “Ben-Hur”. Alla fine il cast di Spartacus sarà diverso: Laurence Olivier (Crasso), Charles Laughton (Sempronio Gracco), Peter Ustinov (Batiato), Jean Simmons (Varinia) e il giovane Tony Curtis (Antonino).

La lavorazione, con i costi ogni giorni in salita, fu tumultuosa, imprevedibile, eccitante. Ma dietro la macchina da presa sta l’importanza di “Spartacus”. Come è noto si cominciò con un regista esperto e convenzionale, il cinquantaquattrenne Anthony Mann. Ma Douglas, insoddisfatto del lavoro, licenziò Mann, e scelse un regista più giovane di vent’anni, in cerca della definitiva consacrazione: Stanley Kubrick.

Douglas e Kubrick si erano conosciuti in “Orizzonti di gloria” (1957). La prima volta che Douglas parlò con Kubrick, rimase sbalordito dalla personalità del giovane regista: “Questo ragazzo ha talento”. Mentre Kirk Douglas si accingeva a mettere in cantiere la produzione di “Spartacus”, Alfred Hitchcock ultimava quella di “La donna che visse due volte”. Qualche giorno fa la storica testata inglese “Sight & Sound” ha reso noti i dati di un’inchiesta condotta con cadenze decennali sui migliori dieci film della storia del cinema, dalla quale risulta che per la prima volta “La donna che visse due volte” di Hitchcock, interpretato da James Stewart e Kim Novak, ha tolto il primato al film di Orson Welles “Quarto potere” (1941).

Dopo cinquant’anni di incontrastato dominio, cominciato nel 1962, Orson Welles perde il primo posto in classifica. Come è stata possibile una così significativa detronizzazione? La risposta è semplice: il trascorrere del tempo. Innanzitutto “Quarto potere” è appesantito dal bianco e nero, mentre “La donna che visse due volte” ha il vantaggio del colore. Constatazione banale, ma garanzia di maggiore appetibilità. Ormai certi film chi li vede più in sala? Ma quanti hanno la fortuna di assistere alla proiezione di “La donna che visse due volte” (130 minuti in pellicola da 70 mm., come “II Gattopardo” di Luchino Visconti), si rendono conto che è un trionfo di colori tenui o vivissimi, maestosi o inquietanti, che rendono quasi irreale la bellezza di San Francisco, e soprattutto esaltano il fascino conturbante e malato (psichicamente, poiché il corpo è uno schianto), della protagonista biondo platino Kim Novak (diventerà rossa per sembrare un’altra, ma le vicende la costringeranno a ridiventare bionda).

Ma c’è una seconda ragione culturale che aiuta a comprendere la detronizzazione. Il dominio dei registi venuti alla ribalta tra la fine degli anni Sessanta del secolo passato e il decennio successivo, la “Sex ‘n’ Drugs ‘n’ Rock ‘n’ Roll Generation”, sta scemando. Stiamo parlando di Martin Scorsese, Steven Spielberg, George Lucas, Brian De Palma, Paul Schrader, Michael Cimino, Francis Ford Coppola, Peter Bogdanovich, Dennis Hopper, Arthur Penn, Bob Rafelson, William Friedkin.

Il loro nume tutelare è stato Orson Welles. Il genio in lotta con lo strapotere dei produttori. Oggi il più originale, colto, ricco, fortunato, chiacchierone, della pattuglia di incendiari, Martin Scorsese, realizza film che fanno rigirare nella tomba l’ingombrante scheletro di Orson Welles.

Dopo è arrivata una nuova generazione dei registi postmoderni, nati tra il 1962 e il 1971: gli autori della “X Generation” (dall’omonimo romanzo di Douglas Coupland del 1991), o i “Sundance Kids” (conosciuti o consacrati al Festival di Salt Lake City, creato nel 1978 e sostenuto da Robert Redford): David Fincher, Quentin Tarantino, Steven Soderbergh, i fratelli Larry e Andy Wachowski, Darren Aronofsky, Kevin Smith, Paul Thomas Anderson, Christopher Nolan, M. Night Shyamalan, Sofia Coppola. Veri indipendenti, non nati “contro” ma “dentro” Hollywood, non marginali ma integrati, per i nuovi autori l’opera di Hitchcock rappresenta il rispetto della formula del film hollywoodiano, e al tempo stesso la capacità di trasgredirla, imponendo un proprio stile di regia. E allora lunga vita a “La donna che visse due volte”. In attesa che il tempo trascorra.