I Cattolici, il Risorgimento e l’Italia Liberale

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I Cattolici, il Risorgimento e l’Italia Liberale

19 Febbraio 2012

Punti di partenza obbligati e premesse necessarie

L’analisi dei rapporti tra la Chiesa e lo Stato unitario all’indomani della sua nascita ha un punto di partenza obbligato: l’Italia è stata l’unica grande nazione dell’Occidente la cui unificazione si è compiuta contro la Chiesa. Il moto unitario che si usa indicare con il termine Risorgimento fu, per non pochi aspetti, un moto anticlericale. Questa peculiarità della nostra storia nazionale ha condizionato a lungo le relazioni tra religione e politica, e ha contribuito a far sì che per molti anni la legittimazione del nuovo Stato fosse, come è stato autorevolmente detto, una scommessa da rinnovare ogni giorno. Basti pensare al tema della base elettorale: al di là del confronto tra quanti l’avrebbero voluta fondata sul censo e quanti l’avrebbero preferita basata sulle “capacità”, vi era allora l’esigenza concreta di escludere dall’elettorato la maggior parte delle masse cattoliche che, se provviste di diritto di voto, avrebbero potuto metter in pericolo l’ancora giovane Stato liberale. Questa realtà delle cose rimanda a una sorta di peccato originale del paese: l’accentuata distinzione che si determina, al momento della conquistata unità, tra la Nazione e lo Stato; distanza che avrebbe rappresentato, per decenni e decenni, il margine concettuale e territoriale intorno al quale si sarebbe definito, e giocato, il rapporto tra religione e politica. Per i “risorgimentali”, il distinguo si sarebbe determinato per responsabilità della Chiesa e, in particolare, per la sua volontà di non rinunziare al potere temporale. Non di meno, il problema di ampliare la base statuale della nuova nazione, per forza di cose ristretta, e di includere progressivamente quanto agli esordi si era stati costretti a lasciare fuori, sarebbero stati i primi e più forti imperativi categorici avvertiti dai nostri nation builders e dai loro eredi.

Visto dalla parte degli esclusi – dalla parte dei cattolici – quel distinguo diviene addirittura una negazione: lo Stato ai loro occhi si è fatto contro la Nazione, intesa come “nazione cattolica”. Per questa ragione, inevitabilmente, esso si sarebbe rivelato una entità fittizia con confini ideologici, culturali e tradizionali altri rispetto a quelli della Nazione la cui identità, invece, si sarebbe connotata prevalentemente attraverso il fattore religioso. I cattolici per questo, assai più dei “risorgimentali”, sarebbero stati spinti a sottolineare la distinzione tra “paese legale” e “paese reale”. Se ne valorizzava la portata storica – la irriducibilità della preesistente entità nazionale all’entità statuale sorta a seguito del processo di unificazione- ma, ancor più, il tema veniva sviluppato sotto l’aspetto filosofico. Sebbene il dibattito in seno al mondo cattolico sia stato articolato secondo percorsi differenziati che vanno considerati il riflesso delle pluralità delle voci interne, nei neoguelfi di Gioberti, nei lavori di Luigi Taparelli d’Azeglio come anche in Balbo la ricerca di una soluzione alla questione cattolica ruota proprio intorno al confronto tra la natura dello Stato moderno e l’idea cattolica di patria: l’origine dello Stato è tutta contrattualistica (nell’accezione rousseauiana del termine), mentre la patria cattolica risponde ad un principio di ordine naturale e originario.

Nel trattare dei rapporti tra Stato e Chiesa agli albori dell’unità un’altra premessa s’impone: quando si analizzano le relazioni tra le due entità, i soggetti che determinano la separazione o quelli che trattano l’ avvicinamento sono due: lo Stato da una parte, la Chiesa da un’altra. La Chiesa “ufficiale”, tuttavia, comprende ma non esaurisce la molteplicità delle iniziative che nascono dentro il mondo cattolico. E queste iniziative talvolta seguono l’indirizzo ufficiale, altre agiscono in un’ottica diversa rispetto a quella della gerarchia finendo per condizionare l’evoluzione storica di quel rapporto. Questa dinamica fu ben chiara già nei pionieristici studi sull’argomento ad opera di Gaetano Salvemini. Anche per questo non può essere elusa, ma a due condizioni che si evidenzieranno chiaramente dalla ricostruzione che segue: non ritenere che sia stata una dinamica a senso unico (che, cioè, abbia sempre e comunque suscitato spinte “progressiste” nel segno dell’apertura al nuovo Stato e in direzione dell’integrazione); non collocare le iniziative autonome del mondo cattolico in una dimensione alternativa rispetto all’azione della Chiesa “ufficiale”. Quelle iniziative, infatti, pesano nelle relazioni interne alla Chiesa ma non hanno la forza e neppure la possibilità teorica di articolare il rapporto duale tra Stato e Chiesa.

Il tempo dell’intransigenza

Punti di partenza obbligati e premesse necessarie servono a impostare un tentativo di periodizzazione dei rapporti tra Stato e Chiesa dalla unità fino alla conciliazione, senza dimenticare mai che alcune fratture originarie attraversano – a volte in modo evidente altre allo stato latente – tutte le diverse fasi e che, anche per questo, assai spesso alcuni tratti del periodo successivo si ritrovano in nuce già in quello precedente. Sicché, si può affermare in premessa, sono più le contingenze storico-politiche che un mutamento degli orientamenti di fondo a determinare il passaggio da un periodo all’altro. E, a ben vedere, queste precisazioni valgono persino per quella prima fase che coincide col pontificato di Pio IX, dal 1861 al 1878, dominata dalla intransigenza assoluta e dall’ostilità reciproca. L’essenza della posizione espressa dal fronte cattolico è presto detta: Pio IX, per il suo percorso biografico, si convinse dopo l’assassinio di Pellegrino Rossi che le riforme conducevano alla rivoluzione e che il potere spirituale non avrebbe potuto fa re a meno della tutela proveniente dal potere temporale. Conseguentemente, i vertici ecclesiastici manifestarono la loro opposizione intransigente auspicando una rivincita della Santa Sede sullo Stato liberale. L’idea era quella di sfruttare prima le insorgenze meridionali e poi qualche difficoltà internazionale del giovane Regno italiano per provocare il crollo dell’edificio unitario permettendo il ripristino dello status qua pre-unitario. Si potrebbe affermare, utilizzando una terminologia un po’ oleografica, che in questa prima fase l’ attacco allo Stato la Chiesa lo mosse esclusivamente “da destra”.

Più complessa si rivela, invece, l’analisi dell’atteggiamento assunto dalla classe dirigente liberale, al punto da affermare che il processo che avrebbe portato alla legge della Guarentigie, letto in controluce, è in grado di rivelare le diverse sensibilità e progettualità delle quali gli eredi di Cavour si fecero interpreti. La complessità originaria dei rapporti tra Stato e Chiesa, e la inevitabile reciproca diffidenza, portarono a ritenere che la soluzione della questione potesse risiedere nella fissazione di garanzie molto incisive. Quest’esigenza plasmò l’atteggiamento della classe dirigente nei confronti del rapporto politica/religione, spingendola a dare della formula cavouriana Libera Chiesa in Libero Stato una lettura istituzionale dalla quale scaturì la legge delle Guarentigie del 1871, all’indomani cioè della breccia di Porta Pia.

Va precisato che questa formula, nel riconoscere l’esistenza di due sfere distinte e separate, non negava certamente la presenza diffusa di una componente cattolica ma prevedeva che i suoi valori e la sua religiosità fossero trasferiti dall’ambito pubblico a quello della coscienza individuale. D’altro canto, è noto come la componente cattolica fosse ben rappresentata all’interno della classe politica: accanto alla Sinistra storica, legata agli ambienti massonici e idealmente anti-cattolica, e agli hegeliani che militavano nella Destra, c’era infatti una parte della Destra storica sensibile, non ostile e a volte addirittura praticante la religione cattolica. Fra tutti i nomi, basterà ricordare quelli di Minghetti e Ricasoli.

Furono dunque le contingenze a far sì che la formula cavouriana fosse interpretata in senso separatista. Né si trattava dell’unica interpretazione possibile nell’orizzonte della cultura liberale del tempo. Poco prima, infatti, negli anni immediatamente precedenti al Secondo Impero, quelli del regno di Luigi Filippo in Francia, l’allora deputato liberale Alexis de Tocqueville produceva un’ampia serie di interventi per spiegare, in virtù delle sue esperienze anglosassoni, quanto una democrazia liberale avesse bisogno dell’apporto e dell’influenza attiva della religione nella vita pubblica. Quelle letture non furono ignote a Cavour e ad altri nation builders che a lui facevano riferimento.

Tocqueville non intendeva tale apporto delle Chiese come sopraffazione c tanto meno come privilegio. Auspicava, piuttosto, che in luogo della separazione si instaurasse tra la sfera dello Stato e la sfera della Chiesa una distinzione che assicurasse ambiti di assoluta competenza esclusiva e, allo stesso tempo, consentisse che Io spazio pubblico fosse irrorato anche dalla religione, nella convinzione che questo fosse interesse non contingente di uno Stato democratico e della sua sanità spirituale. Tocqueville, in particolare, riteneva che il riferimento alla religione e alla libertà di pratica religiosa fosse l’essenziale antidoto contro l’individualismo esasperato e, dunque il rischio di particolarismo, insiti nelle democrazie. Lo considerava, in sostanza, come lo strumento in grado di garantire la ricomposizione di un tessuto organico, di un idem sentire, di obiettivi, scopi e valori che prescindevano la dimensione individuale.

Per come era nato lo Stato unitario, però, questo filone “anglofilo” del liberalismo, presente anche in Italia e anche all’interno della Destra storica, non aveva alcuna possibilità di affermarsi. La contingenza storica, infatti, aveva imposto che una ipotetica soluzione del rapporto tra Stato e Chiesa prendesse le mosse da una constatazione: a confrontarsi non erano due Stati sovrani, ciascuno dotato di un proprio territorio e di un proprio ordinamento. La Chiesa altro non era che un insieme di associazioni e di gruppi soggetti alla regolamentazione e agli indirizzi del governo; ad essa non veniva riconosciuta una propria sovranità, “primaria ed originaria”, all’interno della quale potesse vigere un ordinamento diverso da quello statale. Quest’assunto portò, da una parte, a ritenere di poter regolamentare unilateralmente il rapporto con la Chiesa tramite, appunto, le Guarentigie; dall’altra, invece, innescò un ulteriore irrigidimento da parte della Chiesa stessa: atteggiamento che avrebbe rafforzato le posizioni degli “intransigenti” rispetto a quelle minoritarie rappresentate dagli eredi di Gioberti.

Si può dunque affermare, in conclusione, che sul versante liberale una delle ragioni della cristallizzazione di una logica separatista fu proprio la non scontata fusione, favorita dagli accadimenti, di due tendenze culturali interne al composito mondo liberale: quella legata a ciò che restava del liberalismo cavouriano che impediva di eliminare completamente la Chiesa dal nuovo sistema e quella di ispirazione giurisdizionalista, radicata negli ambienti intellettuali napoletani. Sul versante della Chiesa la situazione si presenta più lineare: questa prima fase è certamente caratterizzata da un condiviso arroccamento su una posizione di difesa che non lasciasse margini di manovra alla classe dirigente liberale. Basti ricordare, a tal proposito, la posizione del Papa che si sarebbe dichiarato, fino alla morte, «prigioniero dello Stato italiano». Ma persino in questa temperie, nel più ampio mondo cattolico – quello diverso dalla gerarchia – vi fu l’emergere di tesi e atteggiamenti “transigenti” che, almeno in parte, richiamavano le posizioni che erano state di Antonio Rosmini, inascoltate da Pio IX.

La definizione dei rapporti di forza in questa prima fase condizionò, inevitabilmente, gli eventi successivi: l’arroccamento della classe dirigente liberale su posizioni separatiste irrigidì la Chiesa come, d’altronde, l’arroccamento di Pio IX sbarrò il sentiero dell’incontro tracciato dai cattolici transigenti sulla base del principio di distinzione più che di separazione. Dal punto di vista politico questo esito ha influenzato le scelte successive, al punto che sarebbe un errore interpretare le aperture sociali della Chiesa compiutesi dopo l’ascesa al soglio di Leone XIII come un abbandono automatico dell’impostazione che, nei rapporti col nuovo Stato, era stata data dal suo predecessore. Nella realtà delle cose la svolta “sociale” del pontificato di Leone XIII, avvenuta in particolare con la pubblicazione della Rerum Novarum nel 1891, si prestò a una lettura non univoca e offrì alla Chiesa, nel suo confronto a distanza con lo Stato liberale, di venirsi a trovare in una posizione politica di felice ambiguità.

In particolare, l’attenzione per la nuova dimensione dell’impegno dei cattolici concesse alla componente transigente margini di manovra ben più ampi di quelli consentiti, in precedenza, da Pio IX. Non per questo, però, gli intransigenti furono messi fuori gioco. Essi, piuttosto, adattarono la loro convinzione di fondo a contingenze politiche e a problemi inediti. Se, infatti, è vero che periodicamente sarebbe riemersa l’ipotesi conciliatorista della formazione di un partito cattolico conservatore, nazionale e cristiano, non è meno vero che grazie all’impegno di Rampolla del Tindaro, nominato nel 1887 Segretario di Stato da papa Pecci, l’intransigentismo riuscì ad acquisire forza culturale, capacità organizzativa e radicamento ben maggiori, al punto da monopolizzare il controllo dell’Opera dei congressi, nata nel 1874.

L’attacco sui due fronti

Tutto ciò ci spinge ad affermare che, senza dubbio, con l’ascesa al soglio pontificio di Leone XIII (1878-1903) si inaugurò una seconda fase dei rapporti tra Stato e Chiesa. La differenza più marcata con il periodo precedente, però, piuttosto che in una diversa attitudine nei confronti dello Stato liberale, va segnalata nella sostituzione della strategia del “controllo dall’alto” con un tentativo di “riconquista dal basso”, attraverso una strutturazione della componente cattolica come forza sociale organizzata. Tale tentativo fu trasversale e politicamente ambiguo. Il successo dell’Opera dei Congressi, infatti, aumentò in maniera graduale il peso degli intransigenti. Questi, privi di progettualità politica e concentrati sulla rivendicazione dell’impegno sociale e civile, fecero dell’Opera non lo strumento che avrebbe dovuto fungere da tramite verso una apertura della Chiesa alle istanze della società civile, al fine anche di integrarle nello Stato, bensì una roccaforte della difesa degli interessi cattolici nella memoria del sopruso compiuto ai danni della Chiesa dal processo di unificazione. Ma a partire dal1896, l’affermarsi delle correnti democratico-cristiane, più inclini a favorire un’apertura al contempo sociale e politica del movimento cattolico, avrebbe determinato una profonda crisi dell’istituto del quale venne decretato lo scioglimento nel 1904. Vale la pena precisare, a tal proposito, che Leone XIII non avrebbe probabilmente ostacolato la nascita di tendenze democratiche, a differenza del suo successore Pio X che, d’altro canto, come si dirà, sarebbe risultato più propenso a favorire l’integrazione dei cattolici nel mondo liberale.

Si può dunque affermare che, vista nel complesso, questa seconda fase fu caratterizzata da una sorta di tentativo di accerchiamento dello Stato da parte della Chiesa: l’attacco, precedentemente mosso da destra, si articolò su due fronti, impossessandosi anche della emergente, cosiddetta, questione sociale. La priorità attribuita a questo tipo di tematiche consentì alla Chiesa di conquistare consensi tra le masse ma, per una sorta di eterogenesi dei fini, questa attenzione le consentì anche successivamente di acquisire peso contrattuale nei confronti dei liberali. Questi, infatti, dopo la nascita del Partito socialista avevano bisogno dell’alleanza con i cattolici per contrastare quella

che consideravano una minaccia e, al di là delle ostilità di fondo, preferivano che fossero le organizzazioni cattoliche ad occuparsi delle emergenze sociali evitando che divenissero il terreno di battaglia sul quale il Partito socialista potesse guadagnare consensi. Con la svolta del secolo si assisté, insomma, allento avanzare di un processo di integrazione spontanea tra cattolici e liberali – un processo più forte nel Meridione che in altre parti d’Italia – favorito anche dalla volontà della classe dirigente liberale di allargare le basi sociali dello Stato. E siamo così giunti alla terza fase.

L’integrazione tentata

Questa progressiva attenuazione della contrapposizione si avvantaggiò anche, a partire dal1904, della attenuazione del non expedit da parte di Pio X, che consentì ai cattolici di partecipare in misura crescente alla vita politica del paese. Entrambi i fenomeni, dunque – sia quello che si svolgeva sul versante liberale, sia quello che si svolgeva sul versante cattolico- andavano nella stessa direzione e cioè verso un ricomponimento della frattura risorgimentale tra Stato e Chiesa. Ciononostante, è innegabile che vi fu una permanenza di forti resistenze all’avvicinamento sia all’interno della componente liberale che in quella cattolica. Sul primo fronte restarono attive le correnti radical-massoniche, che continuarono a identificare nell’originario anti-clericalismo un irrinunciabile e in comprimibile tratto identitario. Sul secondo versante, quello cattolico, l’ affermazione della corrente democratico-cristiana, incarnata poi storicamente dalla nascita della Democrazia cristiana di Romolo Murri, giungeva a rendere più complesso il processo di avvicinamento. E se è senz’altro vero che l’allentamento del non expedit prima – come si vedrà – il patto Gentiloni poi, aprivano nuovamente la strada ad una soluzione diversa dalla separazione, è anche vero che il mondo cattolico, almeno in alcune delle sue componenti, muoveva verso direzioni opposte. Approdata dal punto di vista politico all’apertura verso l’ avvento della democrazia e le trasformazioni sociali evidenti nel primo decennio del1900, questa parte del mondo cattolico cominciava a pensare, e rendeva concreta, l’ipotesi che anche i cattolici si servissero di uno strumento per tutelare e difendere interessi parziali: il partito. Un partito che avesse una propria identità tanto più definita, quanto più esclusiva.

Tuttavia, a fronte di questi fermenti, è innegabile che il patto Gentiloni del 1913 rappresentò il punto più alto dell’avvicinamento e non fu un semplice accordo di vertice, quanto il risultato di un effettivo processo d’integrazione. A questo proposito, le carte disponibili da qualche anno negli Archivi Vaticani parlano chiaro: esse mostrano come quel Patto, assai più che una tappa verso la nascita di un partito cattolico, rappresentò, nelle intenzioni della gerarchia, un passaggio per evitare tale evenienza attraverso una compenetrazione tra cattolici e liberali. Il tentativo, è bene ribadirlo, non ebbe la forza di chiudere i giochi né questo sarebbe stato, d’altro canto, politicamente possibile: continuava a esistere, nonostante il Patto, tutta una parte di mondo cattolico che ragionava in termini di separazione o, al più, di ingresso nella vita del nuovo Stato, ma attraverso una definizione specifica della propria identità. A prevalere, fino al 1913, fu l’impostazione orientata verso la compenetrazione con il mondo liberale. L’avvento della prima guerra mondiale sarebbe giunto a cambiare il corso della storia.

Per una storia non ideologica della conciliazione

Difatti – e siamo alla quarta e ultima fase – il momento che sancì il definitivo ingresso dei cattolici nella vita politica italiana, e l’acquisizione da parte loro di una cittadinanza non separata, corrispose proprio allo scoppio della prima guerra mondiale. Al di là della naturale avversione morale al conflitto armato, i cattolici non fecero mancare il loro sostegno al governo durame la guerra. Non solo dimostrarono di non essere anti-italiani, ma assunsero un comportamento patriottico. Del resto, negli anni del conflitto vi furono in Italia anche ministri cattolici come, ad esempio, Filippo Meda che resse il ministero delle Finanze dal 1916 al 1919. Il passo successivo fu la strutturazione di una presenza politica autonoma dei cattolici, con la nascita del Partito popolare italiano fondato da Don Sturzo nel 1919. Essa fu conseguenza della frattura storica che bloccò il processo di integrazione tra cattolici e liberali e, al contempo, frantumò la famiglia liberale. La rottura che al momento dell’ingresso in guerra si consumò fra Giolitti e l’ala interventista liberale, con Giolitti che considerò quell’azione alla stregua di un vero e proprio colpo di Stato contro la maggioranza parlamentare.

In altri termini, la nostra tesi è che il processo di compenetrazione che si era intrapreso con il patto Gentiloni si arrestò per l’emergenza storico-sociale che fece seguito alla prima guerra mondiale che, in particolare, portò contemporaneamente a un ricompattamento della componente cattolica e a uno sfarinamento della sponda liberale. Il Partito popolare italiano si connotò, dunque, come un partito in bilico tra la una diffidenza permanente nei confronti dello Stato e, nondimeno, una vocazione verso l’inclusione. Non credo sia un caso, d’altra parte, che proprio nel 1919, in contemporanea con la nascita del partito, si verificò il più importante

tentativo di conciliazione tra Stato e Chiesa mai compiuto fino ad allora: l’incontro a Parigi tra Vittorio Emanuele Orlando e Monsignor Cerretti, durante il quale si arrivò a un passo dall’accordo che avrebbe potuto portare, una volta per tutte, alla soluzione della Questione Romana. Per una serie di ragioni ben scandagliate da Roberto Pertici, quel tentativo falli e dovettero passare altri dieci anni di trattative perché, nel 1929, si giungesse ai Patti Lateranensi. Ciononostante, da questa vicenda emerge chiaramente come l’idea di un accordo fosse già matura in età liberale, dopo la fine della guerra, come risultato di quel processo di integrazione “dal basso” fin qui delineato che, al di là delle contingenze e delle soluzioni immaginate, comunque progredì attraverso le quattro fasi delineate. A riprova di ciò valga la citazione dal libro Il Partito Popolare e la questione romana di Gaetano Salvemini, che fu probabilmente il più strenuo oppositore del Concordato del ’29 e segnò, con questa opposizione, una pagina di storiografia e di azione politica. Egli, però, nel 1922, in un’altra temperie politico-culturale, non casualmente scriveva: «La transazione [tra Chiesa e Stato, ndr], guardata con spirito sgombro da sdilinquimenti conciliatoristi e da convulsioni massoniche ritardatarie, non merita di essere né sospirata come indispensabile, né condannata come dannosa, né disdegnata come del tutto inutile. È un frutto che va maturando».

Un’ultima considerazione riguarda il contesto storico-politico in cui il percorso di pacificazione sarebbe giunto a compimento. Il Concordato, infatti, fu firmato quando alla testa del paese non c’era più un governo liberale ma il regime fascista. Tale circostanza ha dato adito, ex post, a un’interpretazione fuorviante dell’atto di conciliazione in sé, considerato più come una manifestazione di appoggio al regime che come approdo finale di un processo di integrazione perpetratosi nel tempo. Proprio di questo, invece, si è trattato: di un Patto che ha chiuso la controversia risorgimentale; della tappa finale di un lungo e lento percorso di composizione della frattura tra Stato e Chiesa, prodottasi con la nascita dell’Italia unita.

(tratto da Ventunesimo Secolo)