I conti italiani sono in ordine. Quello che preoccupa è la crescita

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I conti italiani sono in ordine. Quello che preoccupa è la crescita

25 Maggio 2011

Che la congiuntura economica non fosse esattamente la migliore degli ultimi anni l’avevamo capito anche noi utilizzatori finali di una catena economica apparentemente interminabile. Tuttavia, stando alle ultime notizie, la situazione probabilmente è peggiore di quanto effettivamente ci attendessimo. Dopo la promozione di una settimana fa da parte di Ocse e Fondo Monetario Internazionale, in meno di tre giorni sono tornate di gran moda le polemiche sulla situazione dei conti dello Stato italiano.

Il ventuno maggio l’agenzia di rating internazionale Standard & Poor’s ha diminuito la previsione di tendenza – il famigerato outlook – dell’Italia da stabile a negativo. Il comunicato – come spesso capita in questi casi – ha immediatamente ricevuto molte interpretazioni differenti a seconda di quale fosse lo scopo della critica che si voleva muovere.

Senza voler entrare nel dibattito politico che inevitabilmente ne è nato, in questa sede ci limitiamo a confermare che una cosa è il rating – in poche parole, il merito creditizio del Paese oggetto di analisi – che nel caso in questione è rimasto invariato, altra è l’outlook. Quest’ultimo non è altro che una previsione che l’agenzia di rating compie sulla base di alcuni parametri e valutazioni che possono per certi versi essere svincolate dal giudizio puramente economico che viene fatto sui conti dello stato. In effetti Standard & Poor’s ha espresso una propria valutazione della sostenibilità della situazione politico-sociale in Italia, senza però entrare nel merito di quella economico-finanziaria.

Ci potremmo soffermare sull’annoso dibattito circa l’attendibilità delle dichiarazioni di queste agenzie di rating che, alla luce dei fatti, probabilmente ingenerano negli investitori più preoccupazioni di quanto in effetti non comunichi la realtà. Ma non è l’obiettivo della presente analisi.

A polemiche ancora in corso il ventitré maggio è la volta dell’Istat, che pubblica la sua relazione annuale. E le notizie che riceviamo non sono affatto positive. Un dato su tutti a fare effetto: nel biennio 2009-2010 i posti di lavoro in Italia sono stati in calo di oltre mezzo milione. L’Italia è cresciuta in media di mezzo punto percentuale in meno rispetto alla media degli altri paesi UE – 1,3% contro l’1,8%. Oltre ad una lenta crescita, il rapporto dell’Istat fotografa un’Italia in decisa difficoltà anche sul lato del risparmio delle famiglie che, come sappiamo, è da sempre una delle maggiori forze del nostro Paese – nonché una delle principali armi grazie alla quale non siamo affondati durante la crisi del 2008. Ebbene, le nostre famiglie in dieci anni hanno attinto considerevolmente al tesoretto del loro patrimonio per far fronte ai consumi quotidiani.

In poche parole, da questi dati emerge che anziché incentivare i consumi attraverso una crescita decisa con la barra a dritta il Paese ha tirato a campare disintegrando pezzo a pezzo i propri asset migliori, cioè i risparmi. Gli italiani negli anni si sono indebitati fortemente rispetto ai valori del decennio precedente e i dati Istat riportano che un cittadino su quattro è tecnicamente considerato a rischio povertà o perlomeno a rischio di esclusione sociale.

Se a questo drammatico disegno aggiungiamo che le attività produttive sono praticamente ferme, che non esistono piani di sostegno a lungo termine per la piccola impresa, che la maggior parte dei giovani italiani è senza lavoro e, cosa ben più preoccupante, non lo cerca nemmeno, se con tutto questo consideriamo che il Paese è economicamente spaccato in due tronconi ben delineati – il Nord produttivo e il Sud assistenzialista, detto in soldoni -, se mescoliamo tutti questi fattori ci rendiamo conto che la situazione non è per nulla positiva e che forse per restare in sella serve qualcosa di più di un saggio e sapiente traghettatore come Tremonti.

Per sopravvivere nel futuro non può bastare che la spesa pubblica cali. È necessario far ripartire i consumi. Ma questi non ripartono da soli. Servono incentivi. Servono sgravi fiscali. Servono misure ad hoc per quella che se a breve non sarà una crisi, potrebbe benissimo esserlo a medio-lungo termine.