I Democratici ora cercano   una via americana a Kyoto

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I Democratici ora cercano una via americana a Kyoto

05 Marzo 2007

ll takeover democratico del Congresso, il successo cinematografico della “Scomoda verità ” di Al Gore con annessi Oscar, l’esigenza di differenziarsi rispetto a un’amministrazione repubblicana considerata nemica dell’ambiente: tutto questo spinge la sinistra a stelle e strisce a porre l’enfasi su una “via americana a Kyoto”. Tale via non è però priva di ostacoli. C’è anzitutto una difficoltà politica. Il protocollo di Kyoto è stato negoziato nel 1997, quando Bill Clinton era presidente e Al Gore vicepresidente. Da allora al 2001, quando George W. Bush è salito al potere, né l’esecutivo né le truppe parlamentari dell’Asinello hanno fatto nulla perché gli Usa cedessero alle sirene europee. Oggi Gore cavalca l’allarmismo climatico per far dimenticare l’immagine antipatica e legnosa che ha trasmesso durante gli anni alla Casa Bianca e forse per guadagnarsi sul campo un’investitura che il suo scarso carisma non riesce ad acchiappare, ma è improbabile che, ammesso che lui stesso si prenda sul serio, riesca a determinare un sostanziale cambiamento di linea. Sono infatti tre gli scogli che i “goristi” devono trovare il modo di circumnavigare: il realismo, l’economia, la base della sinistra americana.

Il realismo è una questione di numeri: tutti i paesi industrializzati messi assieme oggi sono responsabili di circa il 50 per cento delle emissioni globali. Il protocollo di Kyoto richiede una riduzione di poco più del 5 per cento delle loro emissioni rispetto ai livelli del 1990: il che significa, a livello globale, un taglio del 2-3 per cento, troppo poco per determinare un’alterazione dei presunti disequilibri atmosferici. Nel frattempo, le emissioni delle economie emergenti continuerebbero a crescere precipitosamente, cancellando l’effetto degli sforzi occidentali e anzi avvantaggiandosene, sotto forma di ulteriore vantaggio competitivo. Secondariamente, l’addensarsi delle nubi sul futuro dell’economia americana – con la parola recessione che comincia a essere evocata, perfino dall’ex capo della Fed Alan Greenspan – suggerisce una grande cautela nell’adozione di provvedimenti che potrebbero accelerare la crisi, renderla più persistente, o rallentare la ripresa. Ogni tentativo di contenimento delle emissioni, infatti, in qualunque modo avvenga (attraverso tasse, schemi di quote scambiabili, od obiettivi vincolanti di uso delle rinnovabili), necessariamente comporta un aumento del costo dell’energia. Ciò può avere a sua volta un doppio effetto sgradito alle organizzazioni sindacali e a una parte della base del partito Democratico, che pure astrattamente potrebbero appoggiare politiche verdi. Da un lato, l’aumento dei costi – dunque dei prezzi – dell’energia (in particolare dei carburanti per autotrazione e delle bollette elettrica e del gas) impatterebbe soprattutto sulle fasce più deboli della popolazione. Dall’altro, metterebbe l’economia americana, specie nei settori energivori, in difficoltà rispetto alla competizione di paesi come la Cina e l’India, e quindi potrebbe potenzialmente danneggiare l’occupazione. In passato alcune sigle sindacali hanno avversato, proprio su queste basi, le proposte di politiche climatiche.

A dispetto della retorica, quindi, la sinistra americana potrebbe non essere kyotista come sembra. Un primo e significativo banco di prova sarà la condotta parlamentare dei Democratici, che oggi si trovano in maggioranza al Congresso. Del resto, durante la campagna elettorale del 2004 il candidato dell’Asinello John Kerry ha tenuto un profilo molto basso sulle questioni del clima: in alcuni momenti si è totalmente allineato con le posizioni del suo avversario, negando l’intenzione di intraprendere misure non volontarie di riduzione delle emissioni. Molti, in Europa, stanno facendo la conta alla rovescia per la fine del regime bushiano. Se anche i Democratici dovessero infine vincere le presidenziali, non è detto che la Casa Bianca si allineerebbe al velleitarismo europeo.