I “dreamers” afghani che tengono sotto scacco la Svezia

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I “dreamers” afghani che tengono sotto scacco la Svezia

24 Gennaio 2018

A leggere la cronaca di ciò che avviene in Svezia nell’ambito delle politiche per l’integrazione degli immigrati si capisce bene perché, a quanto pare, è la Scandinavia, più di qualsiasi altro paese, la “terra promessa” a cui desiderano approdare i profughi che bussano alle porte dell’Europa.

A Stoccolma e dintorni quella degli immigrati rappresenta una vera e propria lobby, un gruppo organizzato di uomini e donne che lavorano, pubblicamente e non, per difendere interessi ben precisi. E’ quello che dimostra, tanto per fare un esempio, il caso “Young in Sweden”, un’associazione di ragazzi afgani tra le più influenti del paese in questo momento.    

Guidati da una leader donna, giovane e intraprendente come Fatima Khawari, gli afgani usano ogni strumento a loro disposizione per raccontare quanto sia dura la vita del rifugiato, per denunciare le discriminazioni e le persecuzioni che sono costretti a subire in “terra straniera”, per gridare ai quattro venti quanto ardentemente desiderano fare della Svezia la loro patria. Non si tratta solo di vuote lamentele, ma di veri e propri proclami seguiti da precise richieste di tipo politico. I “dreamers” afgani chiedono che la Svezia la smetta di rimpatriare tutti quelli a cui viene negato l’asilo, vogliono un incontro formale con  Mikael Ribbenvik, segretario dell’agenzia svedese per le migrazioni, e esigono che i politici approvino leggi che concedono l’amnistia e i permessi di soggiorno a chi ne fa richiesta. Roba di non poco conto, insomma.

Quello che loro offrono in cambio è pieno sostegno a qualsiasi progetto culturale di integrazione; meglio, ovvio, se focalizzato sull’insegnamento delle lingue Persi e Dari ai nativi svedesi, perché – è il loro ragionamento – dopo tutto sono loro che in futuro dovranno assumersi la responsabilità degli afgani-svedesi. Saranno i “padroni di casa”, dunque, a doversi adeguare alle minoranze che chiedono ospitalità, non il contrario. 

Nessuna indignazione, nessuna protesta: del resto, il progressismo sociale di cui la Svezia si fa portabandiera funziona proprio così. E poco importa, tanto per essere concreti, che le famiglie di immigrati abbiano, rispetto a quelle dei pensionati svedesi, la precedenza nell’assegnazione delle case popolari.   

Quella della lobby afgana non è una battaglia di principio, ma una precisa manovra politica che trova una sponda salda nei partiti locali di sinistra. Con gli immigrati di origine islamica il paese ha conosciuto negli ultimi anni un’escalation di violenza senza precedenti, la dolorosa piaga degli stupri seriali, la paura degli attacchi incendiari. Ma l’establishment continua a far finta di non vedere e non sentire, a predicare l’integrazione scandita dal politicamente corretto, a premiare (letteralmente) “Young in Sweden” per il coraggio con cui si battono per il riconoscimento dei loro diritti.