I feti sono bambini, chiamiamoli col loro nome

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I feti sono bambini, chiamiamoli col loro nome

11 Febbraio 2008

Nell’attuale dibattito sulla
prematurità, si discute se rianimare i piccoli neonati e si sente dire che chi
si applica in questo invece vuole rianimare i feti. Intanto chiariamo
che al momento della nascita si deve usare il termine neonato, e che nessuno pensa
certo di rianimare un neonato che non è maturo per sopravvivere; ma dobbiamo
chiarire qualcosa a proposito dell’innata paura verso il termine “feto”.
Purtroppo chiamando feto il neonato sembra che si intervenga su un
“essere” estraneo, perché associamo la parola feto con qualcosa di confuso e
“altro”.

“Feto” è una parola fragile. La
usiamo per convenzione, ma proviamo a riflettere su tre punti e molte cose si
chiariranno:

1) Lo
chiamiamo feto un minuto prima del
parto e bambino un minuto dopo. Cosa
è cambiato? Sul piano fisico quasi nulla. E’ arrivata la luce agli occhi ed è
entrata l’aria nei polmoni. Si è chiuso (e non sempre) un canale tra aorta e
arteria polmonare e poco più. Non sono cambiamenti sostanziali: anche prima di
nascere il bambino si succhiava il pollice, poteva sentire il dolore,
aveva memoria, sentiva le voci, gli/le batteva il cuore. Su questo si può
trovare ampia documentazione
scientifica
. Certo: ora l’ossigeno arriva dall’aria e non dal cordone
ombelicale… ma sono differenze strutturali, non di sostanza.

2) Ma
da dove viene la parola “feto”? In realtà la distinzione tra “feto” (prima di
nascere) e “bambino” (dopo il parto) è recente. Il termine “feto” deriva da una
radice indoeuropea che significa “succhiare”, e la parola “fetus”  in epoca romana significava “frutto”  oppure “progenie” (Catullo indicava come
“dulces musarum fetus” i figli delle muse, cioè le poesie).  Insomma, i romani non avevano un termine per
indicare il bambino nascituro… perché sapevano bene che era un “puer”: già in
epoca romana il bambino non ancora nato poteva ereditare e la lex Cesarea
istituì il diritto del figlio di nascere anche per via operatoria (da qui il
termine “parto cesareo”) se la madre stava per morire. Questa coscienza della
continuità della vita  proseguì nel tempo
e appare chiara anche dai famosi disegni di Leonardo da Vinci che mostrano il
bambino prenatale, e ne illustrano l’inequivocabile umanità, associandovi la
parola “putto”, cioè “bimbo”.

Eppure ad un certo punto della
storia, si è verificata questa cesura, che ha un peso che va ben oltre lo scopo
“descrittivo”: qualcuno ha usato un termine che fino ad allora era un sinonimo
di “figlio” (“feto”, appunto) per indicare qualcosa che, nella sua idea, figlio
non è ancora. I termini “bambino”, “adolescente”, “anziano”, “adulto”
descrivono gli stadi di sviluppo di qualcuno che tutti riconosciamo come
“persona”; invece il termine “feto” serve a denotare un minor livello di
diritti. Sottolinea questa spersonalizzazione del termine il fatto che il
termine “feto” non abbia un corrispettivo femminile: è una forma “neutra”, che
come tale non ha la caratterizzazione sessuale che è la principale
caratteristica della persona.

3) D’altronde
anche il termine “embrione” dovrebbe veder riparata la stessa ingiustizia, dato
che più che una parola è una specie di aggettivo che vuol dire “che fiorisce
dentro” (en- brỳein), il cui soggetto, evidentemente è “il bambino”, ed ha la
stessa origine della parola “brio”, che esprime, come tutti sanno “vita ed
esuberanza”: altro che “umano in progetto” o “diritto dei genitori”.

Ma perché dobbiamo usare per il
bambino prenatale un termine dirottato dal suo significato originario? Forse
perché tutti noi usiamo termini stigmatizzanti per indicare qualcuno che “non è
dei nostri”. E’ un fenomeno dell’antilinguaggio –spesso inconscio-, come lo definiva
Orwell: un bambino è un bambino, ma se lo chiamiamo feto…

Lasciamo il termine feto ai
ricordi del secolo scorso! Può forse servire in qualche discussione nostalgica,
ma deve ritornare la nostra lingua ad usare i termini giusti. Lasciamo la
nostra vista e il nostro cervello concordino sull’evidenza e iniziamo a
chiamare i bambini per quello che sono… semplicemente bambini, anche se sono
piccolissimi, nascosti nell’utero, talora malati: la scienza non serve a
questo? E impariamo a discutere su come curarli – prima e dopo la nascita -, su
come soccorrerli e far progredire la ricerca scientifica nel loro esclusivo
interesse, invece di passare il tempo a discutere se far venir meno il nostro
obbligo di assistere chiunque. I bambini e le loro famiglie ce ne saranno
grati.