I fucili di Bossi e la democrazia liberale

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I fucili di Bossi e la democrazia liberale

31 Agosto 2007

Forse una delle caratteristiche meno rassicuranti della political culture egemone nel nostro paese non è tanto la relativa sordità al tema dei diritti individuali—certo c’è anche questa—quanto la totale incomprensione dello spirito e della natura della democrazia liberale. Per quasi tutte le famiglie ideologiche, infatti, le “regole del gioco” democratico sono una buona cosa finché non si perde: quando si ritengono minacciati i valori fondamentali incorporati nei diversi modelli di buon governo, al diavolo le forme, è la sostanza che conta.

 Un’anziana (e peraltro rispettabile) dirigente toscana della sinistra radicale,a una festa del suo partito,mi ricordava che la libertà politica è bella, ma ancora più bella è la giustizia sociale sicché qualora una maggioranza conservatrice, avvalendosi della prima, dovesse disfare le leggi emanate da un governo di sinistra, non si potrebbe certo, in nome del fair play istituzionale, mettere a repentaglio conquiste vitali per la classe operaia. Insomma per i “padroni” (così venivano definiti imprenditori e banchieri dall’esponente di un partito…al governo) la libertà può e deve essere sempre “condizionata”. Del resto, la festa ospitava padiglioni inneggianti a Cuba e ad Hamas e gigantografie di Che Guevara.

In alcuni settori dell’altro versante, però, la musica non cambia molto: le indicazioni elettorali contano fino a un certo punto giacché la volontà profonda dei popoli non si esprime col voto. Non poco paradigmatico, al riguardo, è il discorso di Umberto Bossi sui fucili padani ma ancora più emblematici sono i commenti che gli hanno fatto seguito. Si è avuta l’impressione, infatti, — e persino nelle parole del Presidente Napolitano –, che lo scandalo prodotto dalle intemperanze  verbali del leader leghista più che la “forma” riguardasse la “sostanza” del  messaggio. Bossi si lamenta dell’eccessiva fiscalità dello stato italiano? E’ la riprova dell’egoismo delle classi e delle regioni agiate che non hanno nessuna voglia di tendere una mano ai connazionali non altrettanto fortunati e che, nell’Europa dei mercanti, vorrebbero godersi da soli le loro rendite di posizione. Bossi minaccia la secessione? E’ la riprova dei propositi e degli umori sovversivi che caratterizzano il Carroccio fin dai suoi primi vagiti e che ora vorrebbero dare la spallata finale alla Costituzione   mandando in frantumi l’unità dello Stato risorto dall’antifascismo e dalla Resistenza!

Come si vede, ciò che conta e impegna columnist e professionisti della politica è il “dove si va a parare” non il “come  ci si va”. E’ il trionfo dell’analfabetismo democratico che, nel nostro paese, si va estendendo a macchia d’olio. Per un coerente democratico liberale, il diritto di lamentarsi dei carichi tributari che diminuiscono le entrate delle famiglie è sacrosanto. Ma la Lega e, con la Lega, i Tremonti, i Giannino, si dirà, non stanno esagerando? Un’analisi accurata e non preconcetta del sistema di tassazione, non potrebbe rivelare che non è affatto vero che i “padani” pagano assai più degli altri? L’ipotesi non va esclusa ma in politica è la percezione dei fatti che importa , quel che pensa e sente l’uomo della strada. Se così non fosse la direzione della res publica dovrebbe essere affidata a ingegneri, a  statistici, a scienziati sociali—come proponevano, del resto, i sansimoniani che tutto potevano dirsi tranne che liberali—i quali conoscono (o credono di conoscere) come stanno le cose.

Considerazioni analoghe potrebbero farsi per il ricorrente fantasma della secessione. Perché  scandalizzarsene? Vaclav Havel, uno dei più rispettabili statisti dell’Europa postcomunista, non ha dato via libera al referendum slovacco che ha portato alla secessione di una etnia culturale  da tempo insofferente della “egemonia” boema? E nel democraticissimo Canada, i leader nazionalisti del Quebec non continuano a indire referendum popolari per separare i destini dei franco-canadesi da quelli degli anglo-canadesi? Dov’è lo scandalo? Se una popolazione oggettivamente e/o soggettivamente omogenea non se la sente più di far parte di uno stato nazionale in cui si ritiene discriminata, in base a quale principio le si negherà l’exit?

Com’è forse noto, a giustificare tale divieto, in letteratura, sono soprattutto due casi classici:

a. Nella porzione di territorio abitato dalla minoranza separatista vengono violati i diritti universali dell’uomo e del cittadino’ (è il motivo addotto da Abraham Lincoln per soffocare la ‘ribellione sudista’);

b. La secessione di una parte dello Stato esporrebbe a rischi mortali le parti restanti, indebolendo le difese di queste ultime dinanzi ad attacchi stranieri o compromettendone le economie qualora i secessionisti fossero in possesso di risorse materiali strategicamente decisive, come ad esempio il petrolio.

Che la Repubblica Padana non rientri in nessuna delle due fattispecie è superfluo far rilevare: soprattutto tenendo conto del fatto che viviamo ormai in un’area, quella europea, a sovranità limitata per quanto concerne gli stati membri e che la sicurezza collettiva come le opportunità di scambio e di investimenti vi sono ampiamente garantite.

Se la protesa fiscale e la secessione non rappresentano un vulnus contro la democrazia, assai diversa, però, è l’evocazione dei fucili (si tratti o no di metafora provocatoria). A Bossi, infatti, degnissimo erede di una tradizione italica di cui non c’è da menar vanto, non è neppure venuta in mente la via maestra della democrazia liberale: l’appello ai cittadini attraverso regolari  consultazioni elettorali. Se il Nord-Est è insoddisfatto e morde i freni perché non lo dimostra facendo della Lega e non di Forza Italia il primo partito del Nord? Se i padani esprimono bisogni, paure, apprensioni collettive perché, nelle loro stesse roccaforti, restano lontanissimi dal fatidico 50+1 ? Si può capire che si imbracci il fucile e si confezionino bombe nei paesi in cui non c’è libertà politica (com’era l’Italia prerisorgimentale con la parziale eccezione del Piemonte costituzionale) ma, negli altri, che significato può mai avere il ricatto della lotta armata? A ben riflettere, a motivarlo può esserci solo una sociologia un tempo monopolio della sinistra estrema e oggi entrata a far parte del bagaglio culturale della protesta borghese: le urne non rispecchiano la “volontà generale” giacché i “poteri forti”, padroni  delle istituzioni e dei mass media non consentono al popolo sovrano di eleggere quanti si prendono cura delle sue esigenze e allora tocca alle “minoranze eroiche”–le camicie rosse, nere verdi della rivoluzione–assumersi l’iniziativa del cambiamento e del risveglio del gregge inebetito che crede a tutto quello che dicono i suoi cattivi pastori. Ritrovare a destra il vecchio Sistema di sessantottesca e marcusiana memoria  è un’ ironia della storia che ci saremmo volentieri risparmiati!

Che in qualche momento della sua travagliata esistenza la Lega abbia coltivato il mito di Guevara, a questo punto, non desta più meraviglia. Stupisce, invece, l’insensibilità etico-politica di qualche liberista che, dinanzi ai diritti individuali lesi dalla pressione fiscale, sembra quasi incrociare le braccia, sospirando: “Se si continua così, non rimane che la rivolta!”. Eh no! Tutto ciò che mette in pericolo la libertà politica, a partire dai fucili, va considerato come il male assoluto giacché, senza libertà politica, non esistono “diritti naturali” – né alla vita né alla proprietà – come non esiste “giustizia sociale”. Per citare il vecchio Silla, se hai una lama sul collo a nulla ti serve la borsa e, aggiungiamo noi, diventa un’irrisione il riconoscimento del “droit au travail” e al posto numerato al grande banchetto della vita.