I fuorusciti dalla chiesa rossa e il divario tra propaganda e realtà

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I fuorusciti dalla chiesa rossa e il divario tra propaganda e realtà

08 Agosto 2008

L’incidente è datato 19 gennaio 1951. L’occasione è la relazione conclusiva del VII congresso del partito comunista di Reggio Emilia. Tema: la guerra. La parola va al segretario federale, Valdo Magnani.  Il giovane dirigente emiliano, parente di Nilde Jotti, già allora compagna di Palmiro Togliatti, dopo aver ribadito “morale politica sovietica” si lascia andare a un’affermazione piuttosto osè, e sottolinea che “ove l’Italia non sia attaccata e quindi in istato di guerra, i comunisti non considerano via della loro rivoluzione democratica il passaggio delle frontiere di un esercito straniero che invada il nostro territorio, da qualunque parte esso venga e che sono per la difesa del territorio nazionale”.

La presa di posizione fa subito il botto. Magnani pochi giorni dopo (lo ricorda Andrea Ungari nella Prefazione ad Aldo Cucchi, Una delegazione italiana in Russia, Mursia) è nella capitale, dove incontra Cucchi, altro giovane parlamentare piccì della zona, in preda a “un’identica crisi di coscienza nel confronti del partito”. I due tengono, a sorpresa, duro. Non si pentono, né fanno autocritica. Botteghe Oscure allora ricorre alle maniere forti. L’esito è scontato. La Guerra fredda non ammette mezze misure, non consente di coltivare dubbi di sorta. Posizioni terziste hanno, infatti, bacini d’utenza limitatissimi.

Fuori dalla chiesa rossa, Cucchi e Magnani dopo aver dato vita al Movimento dei lavoratori italiani (MLI), nel 1953 costituiscono l’Unione socialista indipendente (USI) che contribuisce a fallimento della legge truffa. Poi i loro destini si dividono. Il più politico Magnani rientra gradualmente nell’alveo piccì, al contrario di Cucchi che diventa, alla fine, militante  socialdemocratico.

Ai tempi quella rottura fece molto discutere e colpì in profondità l’immaginazione degli osservatori. Sia fra i favorevoli che fra gli ostili, si cercarono motivi e premesse per illuminare quell’insolito e temerario passo. A proposito di Magnani, si ricordava il passato di resistente in Jugoslavia  e si citava l’alta considerazione in cui teneva l’opera “autonomistica” e anti Urss svolta da parte del Maresciallo Tito. Per Cucchi si dovette aspettare invece qualche mese, ossia l’uscita, nel 1952, di un pamphlet, appunto Una delegazione italiana in Russia, in cui si raccontava di una visita “guidata” Oltrecortina e delle impressioni non proprio gradevoli riportate da molti dei compagni gitanti.

Un piccolo libro, accolto naturalmente con sommo gelo dagli ex compagni di viaggio, tutti rigorosamente filo Urss, dove si registrano, con “stile lineare e asciutto”, in forma quasi diaristica le troppe disfunzioni del sistema, ma soprattutto lo spirito di caserma che aleggia un po’ ovunque nella cosiddetta Mecca del comunismo. “L’autore”, osserva Ungari, “gettando il suo sguardo sulle condizioni di vita della popolazione russa, illustra con maestria il conformismo culturale, il controllo poliziesco e l’effettiva arretratezza economica e tecnologica nella quali versava la patria del socialismo reale. La miseria della povera gente nelle vie di Mosca, le dure condizioni di lavoro degli operai nelle fabbriche e dei contadini nei kolchoz, l’immutata struttura sociale basata sulla gerarchia di classe e il parossistico culto della figura di Stalin sono descritti in punta di penna, senza quasi nessun commento”.

E’ proprio questo tono distaccato a rendere il libello un testo ancor oggi intrigante. In particolare il ricorso frequente al tasto dell’ironia mette in luce, con effetti talora parossistici, i troppi divari esistenti fra propaganda e realtà.

Aldo Cucchi, Una delegazione italiana in Russia, Mursia, pagine 144, euro 11,00.