I grandi del mondo cercano di far ripartire l’economia. Da Davos
30 Gennaio 2009
In questi giorni si sta svolgendo a Davos, in Svizzera, un meeting che raccoglie 41 capi di stato e di governo, 16 ministri degli Esteri, 17 ministri delle Finanze, 20 ministri del Commercio e 1400 amministratori delegati e alti dirigenti delle più grandi multinazionali mondiali, che si pone ambiziosi obiettivi di riflessione a proposito delle principali questioni riguardanti crisi economica globale, conflitti e tensioni politiche, possibilità di cooperazione e ripresa.
Per avere un’idea di cosa si stia discutendo, è necessario premettere che sono molti i dubbi che adombrano un simile dispiegamento di forze e risorse: intanto la politica internazionale dei grandi numeri spesso porta ad epocali buchi nell’acqua, inoltre un confronto a così ampio raggio non può che essere dispersivo. Resta il pregio di un titolo ottimistico, per questa edizione “Modellando un mondo post-crisi”, che almeno potrebbe avere il merito di ridare un po’ di fiducia ai mercati borsistici. Molto di più non ci si può aspettare, ma si possono trarre dai colloqui e dagli interventi (si sono svolte già circa 150 sessioni tematiche) utili informazioni sui trend attuali dell’economia futura.
Dalla Seconda Guerra Mondiale non si presenta una crisi economica di questa entità e per la prima volta si affacciano sulla scena (tra l’altro in apertura dell’evento) i “nuovi players” del mercato globale: primo tra tutti Wen Jabao, leader della Cina comunista-capitalista, che ha esortato alla collaborazione a livello mondiale, confessando che anche il suo Paese ha risentito delle attuali difficoltà. "Il difficile inverno finirà e la primavera è dietro l’angolo" ha dichiarato il capo di stato cinese, trovando pieno appoggio nel premier russo Vladimir Putin e convenendo sul fatto che, sebbene la crisi sia nata per colpa degli Stati Uniti d’America, la cooperazione con il nuovo presidente Barak Obama sarà più che voluta. Putin ha contestualmente trattato il tema relativo a Gazprom, anticipando che sul lungo periodo potrebbe essere realizzato un nuovo gasodotto parallelo all’Espo (la più lunga infrastruttura di quel tipo al mondo che dalla Siberia Orientale raggiunge l’Oceano Pacifico), diretto alla Cina ed al Giappone.
Certo fa riflettere che a discutere siano alcuni tra i maggiori complici all’attuale crisi: Wen Jabao che rappresenta la superpotenza il cui surplus della bilancia dei conti correnti è una delle principali cause della crisi (basti pensare al contraccolpo dei fondi sovrani, i sovereig wealth funds); il primo ministro della Terza Roma, che gli stati di emergenza spesso più che risolverli preferisce crearli, gestendo la questione del gas come se fosse un’arma di controllo su Cecenia, Ucraina e paesi limitrofi e tenendo una seria ipoteca sulle possibili reazioni europee; il primo ministro britannico Brown, che rappresenta un paese per la prima volta dal 1991 in recessione (con un arretramento, secondo l’Office for National Statistics, dell’1.6% nell’ultimo trimestre 2008) ed a cui il Commissario Europeo per il Commercio, Joaquin Almunia, ha fatto notare come il Regno Unito sia lo stato europeo più esposto al rischio di carenza di credito; per continuare con Angela Merkel, accusata da più parti anche se senza prove concrete, di non fare troppo per uscire dalla recessione visto il forte avanzo commerciale della Germania.
La panoramica potrebbe continuare con altri paesi del nostro mondo più sviluppato, come l’Islanda, che vivono oggi tempi molto difficili: nell’isola del Nord Atlantico si sono succedute dimissioni di esponenti del governo, mettendo a rischio la sopravvivenza dell’esecutivo nonostante le elezioni anticipate previste per maggio e la pubblica dichiarazione del premier Geir Haarde di non volersi ricandidare. Il tutto, sempre, a causa della crisi e delle violente manifestazioni di piazza delle cittadinanze impoverite ed infastidite dalla mala gestione dei conti pubblici.
Ma sono le considerazioni sull’Italia, peraltro presidente di turno del G8 per tutto il 2009, che – ovviamente – interessano di più: gli Stati stanno riassumendo in tempo di difficoltà uno strapotere in campo di libertà economica del mercato che può preoccupare chi sia più legato ai principi liberali e liberisti che hanno sempre ispirato la politica europea. Il prossimo luglio l’Italia potrà dare messaggi importanti, dall’Isola della Maddalena, quando ospiterà il vertice delle maggiori potenze economiche del mondo: il disegno di una nuova architettura di potere, basata su un allargamento (G11 o G20, è il principio che conterà) potrà tenere a bada il nuovo nazionalismo economico.
Per il resto è Angel Gurria, presidente dell’Ocse, a fornire l’analisi più lucida sulla exit-strategy dal periodo nero: priorità assoluta l’attenzione al mondo del lavoro ed al pericolo della disoccupazione (l’ILO prevede che potranno esserci 50 milioni di nuovi disoccupati nel mondo entro i prossimi due anni) ma anche un certo ottimismo relativo alla libertà di manovra dei conti pubblici per gli interventi anti-crisi. Essenziale è che tali programmi calibrino con attenzione bilancio pubblico e mercato, e puntino sempre al cosa si farà dopo. Il 2009 sarà un brutto anno per l’Economia di tutta Europa, e quindi anche dell’Italia, ma il 2010 potrà portare ad una certa ripresa: sempre centrale la capacità di comunicare l’effettività delle risposte al problema immediate e sul medio termine. Non è sufficiente aumentare il debito pubblico se non si crea fiducia in un ritorno di equilibrio futuro. Non si deve insomma correre il rischio di pensare solo alla fuga dal periodo drammatico, cercando il modo migliore con la minore spesa, e di non considerare il ben più importante ritorno alla “normalità”.
La prima giornata (mercoledì) insomma si è svolta con una particolare attenzione ai soggetti presenti, all’analisi della situazione di partenza ed alla crisi globale attuale, all’occupazione ed al sistema finanziario: "finché le banche non torneranno a dare credito, che è quello che devono fare, non ci sarà ripresa" ha aggiunto lo stesso Gurria.
Nello svolgimento della seconda giornata (giovedì), il cui tema era più incentrato sulla geopolitica mondiale (ed in particolare la questione di Gaza) c’è stata anche l’occasione per l’OPEC ed il suo Segretario Generale Abdalla Salem El Badri di informare il mondo sul fatto che se i prezzi del petrolio continueranno a scendere, l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio potrà ridurre ulteriormente le esportazioni su scala planetaria (dopo il taglio di 4,2 milioni di barile nel 2008): i prezzi attuali sui 40-50 dollari al barile, sempre causati dal naturale bilanciamento del mercato per la crisi, non soddisfano l’organizzazione, che per politica interna vuole tenere il prezzo del greggio attorno ai 70 dollari. Si è discussa la questione Mediorientale, con l’intervento del presidente israeliano Shimon Peres, il capo di Stato turco Recep Tayyp Erdogan, il primo ministro pachistano Yousuf Raza Gilani e i ministri degli Esteri di Iran, Gran Bretagna e Francia, si è parlato di terrorismo globale e di Occidente.
Per esaurire le oltre 220 sessioni tematiche previste, altri tre giorni di meeting concluderanno il 39° World Economic Forum il prossimo I° febbraio. Al giro di boa, tuttavia, sembra già chiaro che le novità più interessanti negli equilibri mondiali si sono già formate altrove e che ancora molte chiacchiere e molti soldi che sarebbe meglio risparmiare, verranno spesi nei prossimi giorni parlando di crisi, di come uscirne, lasciando in realtà la palla in mano ai singoli governi e al naturale sviluppo della situazione.