I moderati in Italia sono sconfitti perché non propongono più un’idea di futuro

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I moderati in Italia sono sconfitti perché non propongono più un’idea di futuro

24 Maggio 2012

In qualsiasi modo si vogliano interpretare i risultati dell’ultima tornata elettorale amministrativa, da essi emerge con evidenza un dato che è impossibile negare: la nettissima sconfitta dello schieramento di centrodestra così come si è presentato fino a questa legislatura, sotto la forma del Popolo delle libertà e della Lega.
Si tratta di una sconfitta attesa, ma che è andata oltre ogni previsione, assumendo le dimensioni di un vero e proprio sfacelo. E che sembra configurare la fine definitiva di un ciclo politico, coinvolgendo in parte lo stesso centrismo moderato dell’Udc.
Se le tendenze manifestatesi in questa occasione dovessero essere confermate nel prossimo futuro, a partire dalle elezioni politiche del 2013, ci avvieremmo verso un sistema politico caratterizzato sostanzialmente da due poli: da una parte una sinistra rifluita su posizioni di revival statalista/antimercatista e giustizialista; dall’altra un confuso magma di populismo protestatario antipartiti e antisistema, del quale il movimento di Beppe Grillo potrebbe essere soltanto la punta dell’iceberg. In mezzo, un grande buco nero in quella che è stata in tutto il secondo dopoguerra l’area moderata, e in quella che nel ventennio della seconda Repubblica è stata l’area della destra di governo guidata da Berlusconi. Un vuoto che paradossalmente ricorderebbe molto da vicino quello lasciato dal collasso dei partiti governativi di pentapartito vent’anni fa, all’epoca del crollo della prima Repubblica, che prefigurava un quadro politico articolato solo tra sinistra "progressista" e destra antisistema. E che fu colmato proprio dalla "discesa in campo" del leader di Forza Italia.
Piaccia o no, l’elettorato ha dato un giudizio molto chiaro. Esso ritiene il centrodestra berlusconiano/leghista responsabile in tutto o in parte della crisi economico-finanziaria in cui il paese è sprofondato, e non credibile attualmente come classe di governo. Al tempo stesso con ogni evidenza esso è in gran parte scontento dei rimedi proposti dal governo tecnico Monti, e quindi considera negativamente l’appoggio dato ad esso da parte del vecchio centrodestra, ma anche da parte del Partito democratico; il quale guadagna consensi soltanto nella misura in cui viene percepito come meno allineato del Pdl alla piattaforma montiana, e non intercetta voti in uscita da destra, che finiscono in gran parte nell’astensionismo e in minor parte al movimento "Cinque stelle".
Detto ciò, va sottolineato come la tendenza dell’elettorato a punire fortemente le destre di governo non sia in questa fase storica riducibile ad una questione interna italiana, ma piuttosto accomuni molti tra i principali paesi europei. Paesi che fino ad oggi erano, o ancora sono, in maggioranza governati da maggioranze moderate/conservatrici, e in cui le più recenti consultazioni elettorali (le presidenziali francesi, le politiche in Grecia, le amministrative tedesche) e il clima del dibattito pubblico (la Gran Bretagna) sembrano mostrare chiaramente una migrazione crescente dei consensi da quegli schieramenti alla sinistra tradizionale o radicale da una parte, a movimenti antipolitici/antieuropeisti dall’altra.
Occorre chiedersi, allora, innanzitutto quale colpa comune gli elettorati europei addebitino alle classi politiche di destra o centrodestra, per capire se la tendenza in corso si prospetta come duratura o può essere invertita in tempi più o meno ravvicinati.
In prima istanza, non c’è dubbio che quei partiti moderati e conservatori paghino una lettura superficiale e semplicistica che della crisi attuale è passata nell’opinione pubblica e nei mezzi d’informazione europei: quella secondo cui detta crisi sarebbe colpa degli "eccessi del capitalismo", lasciato troppo libero e privo di regole. E che quindi ne sarebbero stati maggiormente responsabili quei partiti tradizionalmente visti come più vicini alla borghesia imprenditoriale e finanziaria. Una lettura fuorviante e sommariamente autoassolutoria da parte di società abituate in realtà da decenni a vivere complessivamente al di sopra dei propri mezzi, grazie ad uno squilibrio strutturale tra indebitamento (pubblico e privato) e produttività.
Ma non credo sia questo l’unico motivo – e nemmeno in ultima analisi quello prevalente – per cui le opinini pubbliche giudichino i partiti moderati/conservatori responsabili della crisi, e poco credibili nel farvi fronte. La causa fondamentale per cui quasi ovunque le destre e il centro al governo in Europa perdono o hanno perso il consenso di gran parte dei loro elettori consiste, a mio avviso, nel fatto che nella percezione del loro elettorato quegli schieramenti sono venuti meno a quella che nell’ultimo trentennio ed oltre è stata la caratteristica fondamentale delle leadership moderate: quel fondamento "reaganiano" e "thatcheriano" che guardava con ottimismo ad una società capace di produrre, grazie ad uno Stato "minimo" e meno oppressivo, ricchezza e benessere. Ciò spiega anche come mai quei partiti perdano voti non tanto a vantaggio delle sinistre, quanto di destre più radicali o, appunto, dei movimenti populisti, o dell’astensionismo.
La vera fonte del loro declino sta, insomma, nel fatto che le destre di governo europee nell’ultimo decennio si sono sempre più caratterizzate soprattutto come partiti del "rigore", dell’austerità, intenzionati a mantenere in piedi – attraverso un uso sempre più pervasivo della leva fiscale – non più soltanto il vecchio welfare nazionale, ma il monumentale apparato dell’unione monetaria e delle istituzioni comunitarie di Bruxelles.
Le destre vengono punite perché il loro elettorato ritiene in gran parte che esse da lungo tempo non stiano più facendo quello che viene considerato come "il loro mestiere": offrire una prospettiva di speranza, promettere e operare un alleggerimento delle società europee dai legami fiscali e normativi che ne castrano la libera espansione.
La strada, non facile né scontata, verso il recupero elettorale da parte di quegli attori politici passa, allora, necessariamente per la capacità di lanciare parole d’ordine e proposte credibili nel senso di una nuova "rivoluzione conservatrice", che favoriscano il diffondersi di un nuovo clima di fiducia nel futuro.
Tali proposte non possono che passare per una drastica riduzione delle funzioni dello Stato, draconiani tagli alla spesa pubblica e privatizzazione di tutti i servizi e settori strategici. Misure certo impopolari, ma compensate però da una riduzione altrettanto "traumatica" e tonificante della pressione fiscale, in grado di infondere alle società continentali quella energia della quale esse hanno vitale bisogno per tornare a rappresentare un polo di crescita a livello globale, e ridimensionare così il peso dei debiti pubblici. Piattaforme di questo tenore, però, hanno la possibilità di cementare consenso soltanto se coesistono con un rinnovato legame, proprio come nell’originaria coalizione politica reaganiana, tra l’opzione economica liberista e una linea solidamente tradizionalista sui temi biopolitici, attenta in primo luogo alla questione demografica e all’integrità/sicurezza dell’istituzione familiare, essenziale base di una big society autonoma, vivace e non asservita all’assitenzialismo statalista.
Ciò vale tanto più per il nostro paese, nel quale ancora più urgente, per il peso strabordante del debito e della spesa pubblica, appare una epocale inversione di tendenza rispetto alle politiche seguite finora tanto dai governi berlusconiani con la linea Tremonti, quanto da quello montiano, che hanno incentivato entrambe ulteriormente la depressione degli "spiriti animali" del paese. E nel quale denatalizzazione selvaggia e disgregazione di famiglie e comunità locali rappresentano due tra i principali fattori di smarrimento e sfiducia nel futuro.
Pdl e centristi, in conclusione, si illudono se credono di poter riconquistare consensi soltanto attraverso progetti nominalistici come la "riunificazione dei moderati" o  "partiti della nazione", o per l’effetto miracolistico di nuove leadership.
Per suscitare nuovamente la fiducia di un’opinione pubblica delusa e amareggiata occorrerebbe, piuttosto, che il centrodestra rinascesse come grande laboratorio collettivo, animato almeno in parte da quell’atteggiamento radicale e audace che è oggi tipico di movimenti non tanto come quello mortifero e punitivo di Grillo, quanto come i "Pirati", i Tea Party o i tanti think tank libertari, e non avendo paura di caratterizzarsi fortemente tanto sul piano del liberismo economico, quanto su quello del conservatorismo sociale. Occorrerebbe che esso comunicasse agli elettori di aver compreso che dalla crisi del debito si esce soltanto con una grande "rianimazione" complessiva della società.