I “mystery” di Giorgio Ballario non fanno rimpiangere il romanzo d’autore
18 Marzo 2012
di Luca Negri
La settimana letteraria italiana è stata animata (si fa per dire) dalla polemica fra Pietro Citati e Giorgio Faletti. Per chi se la fosse persa, beato lui, la sintetizziamo: il primo ha scritto sul Corriere che piuttosto che leggere i bestseller di Coelho, Dan Brown e appunto Faletti, è meglio non leggere affatto. L’ex comico di Passerano Marmorito (provincia di Asti) non si è limitato a rispondere che forse Citati è solo po’ invidioso perché gli manca il successo popolare. Ha esagerato paragonandosi ai geni del passato incompresi dalla critica elitaria: Dumas, Twain e Totò. E così è riuscito a diventarci meno simpatico di Citati.
Ora, non abbiamo capito se quest’ultimo ce l’abbia tanto con i romanzi che vendono (a prescindere, come direbbe il Principe di Bisanzio) oppure si ostini a mettere paletti fra la letteratura alta (sua e dei suoi amici) e quella “di genere” praticata da Faletti e affini. Soprattutto nel secondo caso, sarebbe ora di finirla. Spesso i romanzi che partono da pretese ambiziose e vogliono essere considerati “d’autore” sono meno vivi, riusciti e leggibili di un buon giallo. Senza considerare che alcuni giganti della letteratura hanno dato del loro meglio nelle opere di genere (Chesterton nei racconti del detective Padre Brown, Greene nelle spy-story). Affidarsi ad una forma piuttosto precisa di narrazione, disciplinare l’ispirazione, può dar vita a grandi cose, a pagine godibilissime.
Ad esempio, Citati ha letto Giorgio Ballario? E’ un giornalista de La Stampa che si diletta con il giallo avventuroso. Fresco di stampa il suo “Le rose di Axum”, terzo episodio delle indagini del maggiore Morosini. (edito da Hobby & Work). Si tratta appunto di un romanzo di genere, con le tutte le caratteristiche richieste: c’è l’eroe, maggiore dei Reali Carabinieri, c’è lo scudiero, il Sancho Panza della situazione (il Cico di Zagor, per metterla in fumettistico), impersonato dal maresciallo Eusebio Barbagallo da Nizza Monferrato (astigiano come Faletti). Non manca la storia d’amore, di quelle che lasciano un po’ di rimpianto (il vero eroe, si sa, è condannato alla solitudine).
Come in un fantasy, ci sono i buoni e cattivi, e scopo dell’indagine è capire chi sono i cattivi e quali sono i loro perfidi propositi. La marcia in più di Ballario è l’accurata, appassionata ricostruzione storica e geografica. Il romanzo è infatti ambientato nel 1936, fra i territori della colonia d’Eritrea e l’Abissinia contesa fra impero fascista e il regno del Negus. Non è cosa da poco se il romanzo ci ricorda che c’erano galantuomini fra i servitori dello Stato, anche in epoca fascista, che la presenza italiana in Africa orientale non fu così nefasta e crudele, e che il regno etiopico di Hailé Selassiè vegetava sfruttando la schiavitù e la miseria del popolo. Non che Ballario sia un nostalgico del Ventennio o dell’effimero impero di Mussolini, nemmeno il suo Morosini è propriamente un fascista (preferisce leggere Seneca all’occuparsi di politica), ma con un’opera di finzione rende un ottimo servizio alla memoria storica, cosa che ancora non riesce a qualche testo scolastico.
Dunque, dicevamo, “Le rose di Axum” è un giallo, o meglio un mystery. Tutto parte da un omicidio: si scopre nelle saline ad ovest di Massaua il cadavere di un uomo orrendamente seviziato. Morosini deve scovare l’assassino e deve anche accompagnare al sud, verso il fronte di guerra, una spedizione archeologica di alleati tedeschi. I segugi del nazismo esoterico, membri dell’Ahnenerbe, “Società di ricerca dell’eredità ancestrale" fondata da Himler, vogliono impadronirsi della salma dell’antico re Caléb, sepolta in un mausoleo axumita, con la speranza di poter dimostrare che si trattava di un ariano e non di un nero africano. Il carabiniere non ci metterà molto a capire che c’è un legame tra il corpo nelle saline e i tedeschi in trasferta.
Prima di agguantare la verità, dovrà però affrontare serpenti e ragni velenosi, attacchi di ribelli abissini, intrighi vari e timori per maledizioni ancestrali. Compariranno sulla scena monaci copti, il poeta futurista Filippo Tommaso Marinetti (fu veramente milite volontario in Africa), il giovanissimo Hugo Pratt (narratore che ispira parecchio Ballario). Anche lo spettro di Julius Evola, grazie una riuscitissima trovata narrativa, aleggia su questa storia ambientata fra i resti di antiche civiltà e gli spasmi di un Novecento gravido di conflitto mondiale. Inoltre, il romanzo, complici le stelle del cielo etiope, offre considerazioni non banali sul destino umano.
Sono tutti ingredienti amalgamati con sapienza, limati con precisione artigianale (giacché la scrittura, ricordiamolo a Citati e a Faletti, non dovrebbe essere altro che buon artigianato). Ballario è così bravo che saremmo tentati di incoraggiarlo a dedicarsi al romanzo d’autore. Anche se, ad esser sinceri, non vediamo l’ora di leggere la prossima avventura del maggiore Morosini.