I “non protagonisti” dell’Unità d’Italia

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I “non protagonisti” dell’Unità d’Italia

24 Aprile 2011

Liborio Romano o don Liborio. Come un prefisso o un titolo, un tono, un’inflessione può cambiare una storia… Specialmente se la storia è ambientata a Napoli e c’entra – se in pieno o di sbieco non è certo – la camorra. Per l’epoca in cui si svolge, gli anni cruciali del nostro Risorgimento, per lo scenario e le circostanze, per il valore apparentemente esemplare, la storia in questione ha tutte le sembianze di un apologo. Protagonista ne è un personaggio singolare: giurista e politico nel regno delle Due Sicilie, contestatore e poi ministro dei Borboni, consigliere di Garibaldi e referente di Cavour, capo virtuale della camorra, liquidatore della monarchia borbonica e scaltro profeta del nuovo corso.

Liborio Romano nacque nel 1793 a Patù, in provincia di Lecce, e si trasferì giovanissimo a Napoli per studiare giurisprudenza nell’università della capitale, dove ottenne in seguito una cattedra di diritto commerciale. Entrò in politica dalla parte “sbagliata”: nelle file dei liberali più estremisti, attirando l’attenzione della polizia borbonica. In seguito, l’esperienza dei moti del 1848 lo indusse a spostarsi su posizioni più moderate, che gli valsero il reintegro nel corpo docente universitario e il permesso di proseguire nell’attività politica.
La sua carriera decollò nei giorni della “rivoluzione” garibaldina in Sicilia, quando i ripetuti successi dei Mille suscitarono in tutto il regno borbonico un’atmosfera di irrequietezza e sconforto. Giorno dopo giorno, tra le forze armate e i funzionari della pubblica amministrazione, si diffondevano malcontento e apprensione, il popolo in strada cominciava a contestare la monarchia.
Il 25 giugno 1860 re Francesco II emanò a Portici l’Atto Sovrano accordando una generale amnistia per i reati politici, concedendo a Napoli la costituzione (che sarebbe stata compilata dal nuovo governo presieduto dal commendatore Antonio Spinelli) e istituzioni separate alla Sicilia. Da quel momento la bandiera borbonica sarebbe stata sostituita dal tricolore con al centro lo stemma della casa regnante.
Nel quadro della riorganizzazione dei ministeri la prefettura di Napoli fu, “a garanzia della parte liberale”, affidata a Liborio Romano, imprigionato in gioventù per l’accusa di setta e ancora nel 1851, durante la repressione seguita ai moti del 1848, e poi esule in Francia, dalla quale per atto di regia clemenza era ritornato dopo quattro anni.

Appena entrato in carica, don Liborio “fece un passo ardito, poscia censurato da coloro che a censurare soltanto si serbano. Egli mutò i camorristi, che non poteva tenere a freno, essendo fuggiti e scomparsi commissari, ispettori e birri, in elementi d’ordine con farne base della polizia nuova. Con mettere alla testa delle squadre poliziesche i caporioni della camorra, fare dei picciotti di sgarro poliziotti, dar loro uniforme nuova, limitatene le attribuzioni alla prevenzione dei reati e alla pubblica sicurezza, vietato l’arresto fuorché in flagranza di reato e l’entrare in case private senza mandato di magistrato, fece nascere l’ordine dal disordine, e Napoli fu salvata dai misfatti e dalle rapine”.
Il 15 luglio 1860 proprio Liborio Romano, in testa a un manipolo della nuova polizia, fronteggiò l’insubordinazione di un reparto di granatieri della guardia reale e di fanti della marina che, provocata ad arte una rissa, irruppero con le sciabole sguainate al grido di “Viva il re, abbasso la costituzione” provocando gravi disordini nel centro storico della città. Anche alcuni ministri furono feriti; il re si rifiutò di sciogliere i reparti in rivolta ma rimproverò personalmente e pubblicamente i ribelli, poi emanò due proclami indirizzati all’esercito e al popolo, in cui raccomandava un atteggiamento conciliante e sottolineava l’intenzione di perseguire una politica di indipendenza nazionale attraverso una lega con il Piemonte. In seguito a questi eventi Liborio Romano venne nominato ministro degli interni.

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