“I nostri imprenditori devono scommettere sull’Afghanistan”
11 Novembre 2010
L’Afghanistan nei prossimi anni ha bisogno di un forte rilancio economico, sinonimo di stabilizzazione del Paese e dell’area. Per questo, serve una iniezione di fiducia negli investimenti stranieri e anche l’imprenditoria italiana potrebbe assumersi questo rischio, come sta già facendo. Nel frattempo, va portato avanti il dialogo con i Talebani che hanno rinunciato ad Al Qaeda e organizzato il rientro progressivo dei diversi contingenti. Della strategia italiana e dell’Alleanza in Afghanistan abbiamo parlato con Attilio Massimo Iannucci, plenipotenziario della Farnesina per l’AFPAK che si appresta ad assumere l’incarico di ambasciatore italiano in Cina.
Dottor Iannucci, quant’è importante per gli afghani la presenza del contingente italiano?
Siamo impegnati in settori fondamentali. Dall’institution building, allo sviluppo economico del paese. Ci stiamo occupando della sanità, delle infrastrutture, dell’assistenza al governo nel settore della governance: e quindi ristrutturazione del sistema politico e dell’apparato giudiziario. Per citare un esempio, sta avendo grande successo un progetto dell’università di Genova sulla formazione di funzionari pubblici ad Herat. Ma sarebbe un lungo elenco, con un impegno finanziario di 500 milioni di euro. E’ fondamentale curare le fasce più deboli della popolazione e combattere la povertà.
Quant’è importante lo sviluppo economico per la stabilizzazione dell’Afghanistan?
Cerchiamo di favorire il passaggio da una politica di assistenza ad una politica che si fondi sullo scambio, sul mercato. Esistono alcuni beni afghani che avrebbero molto spazio in Occidente e non solo. Le cave di marmo bianco di Chest-i-Sharif, l’oppio da utilizzare per fini legali, lo zafferano che se esportato garantirebbe guadagni ancora maggiori dell’oppio. Queste sono solo alcune delle risorse di cui è ricco il Paese e che potrebbero avere un ruolo fondamentale nel suo sviluppo.
Una ripresa economica potrebbe favorire anche il dialogo intrapreso con i Talebani?
La nostra idea è quella di una crescita economica come chiave per riportare alla vita civile quei Talebani che combattono solo per ragioni di povertà, per fame. Incrementando gli scambi commerciali, gli investimenti stranieri, in generale migliorando le condizioni di vita della popolazione, è possibile strappare uomini all’insorgenza. Se noi aiutiamo l’Afghanistan a crescere economicamente, avremmo un paese stabilizzato con metodi pacifici.
Gli investimenti stranieri. Le condizioni di sicurezza lo permettono?
È un processo a macchia di leopardo. Alcune delle province hanno una situazione di stabilità e sicurezza che non è assolutamente paragonabile a quella di altre. Nella zona di Herat, nell’ovest, dove noi abbiamo la responsabilità affidataci dalla Nato, esistono queste condizioni. È forse ancora presto per parlare di investimenti, ma senza dubbio è il momento di iniziare con i commerci. Dei segnali di questo tipo vengono già dal settore del marmo, con imprenditori italiani che sono interessati a questo prodotto di qualità e con altri imprenditori che fabbricano macchinari necessari per l’estrazione.
Parliamo della strategia di rientro delle truppe occidentali. In che modo avverrà e quando?
Una cosa deve essere chiara: non si può abbandonare il popolo afghano a se stesso. Da questo punto di vista è decisivo il vertice che si terrà il prossimo 18 e 19 novembre a Lisbona. In quella data si fisseranno condizioni, metodi e criteri specifici per il rientro. Il presidente Obama ha affermato più volte che dal 2011 inizierà un processo di progressiva diminuzione della presenza militare in Afghanistan e di crescita di quella civile, in cui sono coinvolti tutti i Paesi alleati.
Parliamo della ricostruzione civile
Nel Paese ci saranno esperti, professionisti che saranno d’appoggio agli afghani in vari settori, ma ciò che ci auguriamo più di tutto è che si materializzino anche gli imprenditori, gente pronta ad assistere il popolo afghano dal punto di vista economico. È una delle nostre priorità. È ovvio che la presenza militare diminuirà solo a patto che lo permettano le condizioni di sicurezza. Rimarrà comunque prolungata nel tempo l’azione dei formatori militari, per l’addestramento della polizia locale. È indispensabile. Accanto alla formazione dei magistrati e del sistema giudiziario, il governo centrale afghano ha bisogno di una polizia capace di mantenere l’ordine.
Torniamo ai Talebani. Fino a ieri non erano il nemico?
Dobbiamo ricordare che l’esercito americano non è andato in Afghanistan per combattere i talebani. L’America voleva colpire al-Qaeda, ritenuta responsabile dell’attacco alle Torri Gemelle. I terroristi hanno stretto legami sempre più forti con i talebani, che sono presenti in tutto il territorio. Al-Qaeda, oggi, è asserragliata soprattutto nel sud. Da una parte, quindi, abbiamo l’operazione anglo-americana contro il terrorismo per i fatti dell’11 Settembre, dall’altra c’è l’impegno della Nato, che su mandato delle Nazioni Unite cerca di stabilizzare il Paese. Il nostro compito in Afghanistan non è combattere direttamente i terroristi, ma è quello di contrastarli indirettamente, garantendo sicurezza ed evitando l’uso della forza sul territorio.
Quali sono i margini della trattativa?
Per quanto riguarda le trattative con i Talebani, come prima cosa bisogna distinguere i cosiddetti “talebani marginali” (chi combatte per soldi, sono la maggioranza, il 75%), dagli altri che invece si oppongono per motivi ideologici al governo (questi sono rappresentati dai vertici, circa il 20% degli insorti). Poi c’è al-Qaeda, che rappresenta il 5%. Il nocciolo duro. Dunque, chi combatte per fame non è da condannare, per loro si parla di riconciliazione, poi reintegrazione ed amnistia. Cerchiamo di coinvolgerli nella vita politica del paese. Con gli altri Talebani si cerca la via del dialogo ma è più difficile. Con i terroristi, ai quali si attribuiscono maggiori responsabilità, non è possibile trattare.
Lo scorso ottobre a Villa Madama si è parlato della necessità di coinvolgere altri attori regionali nella stabilizzazione dell’Afghanistan. Per esempio l’Iran
Nel luglio dell’anno scorso, a Trieste, in occasione della conferenza ministeriale del G8, abbiamo sostenuto l’idea che la crisi afghana debba essere risolta con l’attiva collaborazione di tutti i Paesi della regione. In questo ambito entrano il gioco non solo il Pakistan o l’India, ma soprattutto l’Iran. Teheran ha due grossi problemi che provengono dall’Afghanistan: l’afflusso di droga, che colpisce larghi strati della popolazione, e l’immigrazione clandestina proveniente proprio dalla regione di Herat, sotto la nostra responsabilità. Su questa zona, storicamente ed etnicamente, Teheran gode di notevole influenza, dunque non va sottovalutata la necessità di una collaborazione. Gli Iraniani stanno dando segnali molto positivi.
Ma non è lo stesso Iran che finanzia e invia armi ai Talebani? L’interesse reale di Teheran non potrebbe essere di incastrare l’Occidente in un Afghanistan instabile?
A noi risulta un interesse americano per una risoluzione del problema equilibrata e pragmatica e il rappresentante iraniano ha seguito con interesse l’esposizione della situazione militare fatta dal generale Petraeus nell’incontro di Villa Madama. Ci sono dei segnali di contatto. Certo, a facilitare le cose con gli iraniani ci siamo noi, che con Teheran riusciamo ad avere un dialogo più facile. Bisogna tener conto che questo dialogo non ha nulla a che vedere con le altre gravi problematiche che riguardano l’Iran. Noi ci siamo concentrati su questo settore della crisi afghana e su questo Teheran sta rispondendo bene. Gli iraniani continuano a condannare la presenza occidentale nell’area, ma non escludono la possibilità di collaborazione.